Quel derby infinito tra Tremonti e Draghi e tra «Whatever it takes» e «Whatever mistakes»
Quel derby infinito tra Tremonti e Draghi e tra «Whatever it takes» e «Whatever mistakes»
L’ex ministro del Tesoro torna ad attaccare l’ex presidente della Bce per le decisioni che vennero prese nel 2012. Da cui sarebbe generato l’attuale caos finanziario. Una storia di contrasti che parte da molto lontano

di di Paolo Panerai 17/03/2023 22:25

Ftse Mib
33.812,44 8.01.30

+0,12%

Dax 30
18.417,55 23.50.31

+0,65%

Dow Jones
40.589,34 7.28.14

+1,64%

Nasdaq
17.357,88 23.50.31

+1,03%

Euro/Dollaro
1,0859 23.00.33

-0,05%

Spread
136,43 17.29.58

+0,06

Ora non c’è che da aspettare la risposta di Mario Draghi.

L’attacco di Giulio Tremonti all’ex presidente del consiglio e banchiere centrale del «Whatever it takes» in una bellicosa intervista a Carlo Marroni è probabilmente la migliore provocazione per un’analisi seria sulla situazione finanziaria, bancaria e quindi economica in cui si trova oggi il mondo dilaniato da più guerre. Tremonti è arrivato a cambiare in «Whatever mistakes» la famosa frase con cui Draghi, presidente della Bce, impresse la svolta per il ritorno allo sviluppo dopo gli anni tragici per l’economia dell’Europa e del mondo seguiti al fallimento di Lehman brothers del 2008.

È una disputa, quella aperta da Tremonti, che si basata sul filo dell’analisi di una persona di rara intelligenza, ma in realtà in essa c’è tutta l’inimicizia e il risentimento sorto quando Silvio Berlusconi, presidente del consiglio, mentre Tremonti era ministro dell’economia, decise in solitario di scegliere Draghi come primo governatore della Banca d’Italia nominato dal governo, in seguito alla nuova legge che riassegnava al potere politico la scelta del banchiere centrale.

Chi segue queste pagine conosce già la storia della nomina e anche l’avventura che seguii con i miei occhi. Era l’agosto del 2005 e Antonio Fazio si era dimesso dopo le vicende della Popolare di Lodi e appunto il parlamento aveva varato la legge per cui il governatore non fosse più scelto in autonomia dal Direttorio della Banca d’Italia, bensì dal governo, e in più che la sua carica fosse a scadenza.

A proporre a Berlusconi il nome di Draghi fu Cesare Geronzi, ex-Bankitalia, e allora ai vertici di Capitalia, che partendo dalla Cassa di Risparmio di Roma, con la guida sicura di Guido Carli al Tesoro, con Pellegrino Capaldo aveva salvato il Banco di Roma e il Banco di S. Spirito.

Capitò, nell’estate del 2005, che mi trovassi con Geronzi in Sardegna su una barca davanti a Portorotondo. A 200 metri da noi il mare diventò rosso. Il banchiere Draghi (era vicepresidente di Goldman Sachs dopo essere stato direttore generale del tesoro) facendo il bagno davanti a noi aveva messo un piede su uno scoglio nascosto procurandosi una ferita profonda. La vicenda allarmò Geronzi, perché per Draghi la sera stessa aveva organizzato una cena a Villa Certosa, appunto perché Berlusconi gli comunicasse che lo aveva scelto per sostituire Fazio in via Nazionale. Draghi arrivò alla cena sorretto a braccia, non potendo poggiare il piede a terra.

Il piccolo dettaglio è che Berlusconi non aveva tenuto in nessun conto gli orientamenti del suo ministro Tremonti, né lo aveva informato preventivamente della scelta.

Da qui una inimicizia spontanea di Tremonti verso Draghi, che un giorno spinse il neo governatore a invitarmi in Bankitalia per cercare di capire come potesse essere arrestata la disputa pubblica sui giornali da parte di Tremonti, sempre più offeso per essere stato tagliato fuori dalla nomina del governatore.

Non meraviglia, quindi, che l’inimicizia continui e che nell’intervista Tremonti giunga a ricordare la proposta a cui aveva lavorato in seno all’Ocse perché fossero fissate quelle regole, che a suo giudizio erano necessarie, per porre rimedio alla sconfinata liquidità immessa nel sistema. Tremonti sostiene infatti che i gravi problemi di oggi derivano dal non aver approvato il Global legal standard, votato dall’Ocse, al quale, per contro, fu preferito introdurre un sistema basato sui ratio al posto di regole, con la creazione del Financial stability forum ispirato da Draghi e di cui Draghi divenne presidente con il sostegno determinante degli Stati Uniti, per passare poi alla Bce.

Per cui appare non facile condividere l’affermazione centrale di Tremonti nel suo libro Globalizzazione. Le piaghe e la cura possibile e cioè che «questa politica di sconfinata liquidità è arrivata fino ad oggi, per mezzo di una continua cambiale girata dai popoli e dai governi alle banche centrali e da queste al mercato finanziario globale».

Non è facile condividerla perché Tremonti si affretta ad aggiungere che tuttavia negli Stati Uniti la politica è rimasta viva, per la forza delle istituzioni americane, mentre in Europa, per un perduto decennio, la politica è invece quasi morta. Ma si dimentica che a scegliere Draghi per la presidente del Financial stability forum furono proprio gli Usa e che il giorno stesso in cui la Bce approvò «Whatever it takes», con il solo voto contrario nel consiglio della banca centrale da parte del presidente della banca centrale tedesca, la prima reazione dei mercati europei fu negativa.

Era il 28 luglio del 2012 e Draghi mi telefonò per dirmi, prima di giudicare, di aspettare l’apertura dei mercati americani. E infatti i mercati americani approvarono con entusiasmo le scelte di «tutto quanto serve» per uscire dalla crisi, facendo capovolgere immediatamente l’andamento inizialmente negativo dell’Europa. E del resto i frutti di quella scelta si sono visti dal 2012 fino ai giorni nostri.

Nel frattempo, cosa è successo per giungere alla situazione attuale, certamente preoccupante?

1) Contrariamente a quanto afferma Tremonti, sicuramente in buona fede, la politica americana non ha affatto funzionato bene e per questo basterebbe ricordare il tentativo di assalto dei trumpiani al congresso;

2) È scoppiata una guerra di cui non si vede la fine;

3) Soprattutto in Europa, dietro l’apparente unità, sono riemersi i contrasti fra chi è ricco (Germania) o parsimonioso (Olanda e compagnia) e all’interno della Bce non è prevalsa la linea del rialzo dei tassi a ogni costo; è tornata la voglia di usare il Mes verso chi non ha i conti a posto come era successo con la Grecia.

È questo terzo aspetto che deve preoccupare soprattutto l’Italia. Non basta che la presidente Giorgia Meloni sostenga: «Non useremo mai il Mes». Gli altri paesi spingono perché anche l’Italia, ultimo paese che non ha detto sì, approvi il nuovo Mes, cioè il Meccanismo europeo di stabilità dalla cui applicazione la Grecia non si è ancora ripresa.

Le condizioni economiche e finanziarie dell’Italia non sono quelle della Grecia di allora e la nuova versione del Mes è più blanda; ma certo, al di là della volontà della Presidente Meloni, l’Italia è inevitabilmente un possibile candidato a vedersi applicare le regole e le imposizioni, sgradevoli, del meccanismo di stabilità. Che cosa pensa di fare il governo di centro-destra per scongiurarne realmente la necessità e l’applicazione, mentre sui mercati si assiste alla contaminazione dei fallimenti bancari?

* * *

Un’iniziativa strutturale è stata approvata dal Consiglio dei ministri di giovedì 17, ancorché non di efficacia immediata e assolutamente non decisiva su quello che è il cancro dell’Italia, cioè il debito pubblico a oltre il 150% rispetto prodotto interno lordo (l’equivalente del fatturato, assimilando il paese a una società). L’iniziativa è il lancio di una riforma fiscale finalmente a inizio legislatura, di una legislatura che dovrebbe durare i canonici cinque anni e quindi con tutto il tempo per permetterne l’approvazione. C’è un altro elemento positivo, oltre il tempo davanti per l’approvazione e la messa in atto: a guidare la riforma sono due persone competenti ed equilibrate. La responsabilità diretta è del vice ministro dell’economia, Maurizio Leo, che naturalmente lavora in stretto contratto con il ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti.

Il viceministro Leo è professore di scienza delle finanze, come lo era Bruno Visentini a cui si deve l’ultima riforma veramente strutturale del fisco italiano, quarant’anni fa. È stato direttore centrale per gli affari giuridici e per il contenzioso tributario del dipartimento delle entrate; dal 1999 è prorettore presso la Scuola superiore dell’economia e delle finanze. Ha collaborato a lungo con ItaliaOggi.

Nel giorno stesso in cui il Consiglio dei ministri ha approvato la legge delega che arriverà in parlamento fra pochi giorni, il professor Leo ha avuto un confronto serrato a Porta a Porta condotto da Bruno Vespa con il senatore del Pd, Carlo Cottarelli, uno dei maggiori esperti italiani di conti pubblici e di economia in generale. Mentre Cottarelli ha apprezzato vari principi contenuti nel testo della legge delega (per esempio la semplificazione di deduzioni e detrazioni), una forte critica ha riguardato invece la mancanza nella legge delega di numeri, a parte la decisione di ridurre da quattro a tre le aliquote da applicare sui redditi delle persone fisiche, accorpando a quella più bassa (23%) la seconda (25%). In questo modo mentre prima il 23% veniva pagato da chi aveva redditi fino a 15 mila euro, ora sarà applicata sui redditi fino a 29 mila euro.

«Ma mancano indicazioni precise, per esempio, di quali spese si farebbero i tagli, nel caso di perdite di gettito: paradossalmente potrebbero essere tagliate le spese per l’assistenza sanitaria», ha detto Cottarelli, «mentre nella legge delega della riforma degli anni 70 si arrivò per esempio a specificare perfino che la tassazione sul prezzo dei giornali era al 5%».

Il problema è rilevante, perché una volta approvata la legge delega, poi per attuare la riforma, per la quale serviranno almeno due anni, il governo potrà procedere con decreti legislativi, che non richiedono l’approvazione del parlamento. In altri termini, secondo Cottarelli, non aver messo nel testo della legge delega approvata dal consiglio dei ministri vari numeri e percentuali precise, darebbe al governo un potere discrezionale assoluto, escludendo il parlamento.

Il professor Leo ha spiegato che all’epoca della riforma degli anni 70 non esistevano i vincoli normativi europei che vi sono oggi e quindi indicare numeri e percentuali è impossibile perché potranno essere contrari alla normativa europea, che fra l’altro potrebbe anche cambiare nel frattempo.

La risposta del senatore Cottarelli è stata netta. Che si inserisca nella legge delega, a opera del parlamento, che i numeri e le percentuali siano indicati con la riserva che possano essere cambiati se contrastassero che le norme europee.

Naturalmente in parlamento ci sarà battaglia per l’approvazione della legge delega approvata dal consiglio dei ministri. Ma soprattutto non si dovrebbe poter prescindere dalla realtà dei conti pubblici italiani, che sono i peggiori d’Europa e che espongono il paese alle continue critiche dell’Unione europea, con il pericolo di dover far ricorso al Mes, nonostante la dichiarazione formale della presidente Meloni che l’Italia non chiederà mai di usufruire del Mes.

Ciascun governo ha la possibilità di rifiutare, in caso di pericolo di default, quindi la presidente Meloni ha diritto di dire che il suo governo non ricorrerà mai al Mes, ma per evitare qualsiasi rischio che si trovi obbligata anche contro la sua volontà, occorre che in parallelo alla fondamentale riforma fiscale, il governo operi per centrare due obiettivi

1) Tagliare il debito, ma con un taglio netto, grazie alla vendita nelle modalità previste anche da banca Intesa Sanpaolo degli immobili inutilizzati trasferiti dallo stato agli enti locali;

2) Mettendo a frutto l’enorme risparmio italiano con la creazione di un vero mercato dei capitali, dove possano finanziarsi sia le pmi che le grandi aziende italiane in modo da avere una crescita reale e sana del prodotto interno lordo (pil).

I provvedimenti da prendere perché ciò avvenga sono di ordine normativo riguardo ai mercati, e su questo in effetti qualcosa sta muovendosi, ma la mossa indispensabile e vincente è prevedere sconti fiscali sia per le aziende che si quotano sia per chi investe in esse. Quindi provvedimenti che sì potrebbero rientrare nella riforma fiscale, ma che possono essere presi anche immediatamente, sia pure collocati nella logica della riforma.

Ci si ricorda di come il governo operò quando fu decisa la stagione delle privatizzazioni? Allora si riuscì, con provvedimenti straordinari, a far nascere parecchi milioni di nuovi azionisti. I quali poi si sono liquefatti perché il mercato borsistico era opaco e perché la scelta era limitatissima rispetto alle società quotate negli altri paesi.

Professor Leo, per la fiducia di cui gode si faccia carico di una iniziativa fiscale, naturalmente per un periodo limitato di tre-quattro anni, che spinga il risparmio italiano verso investimenti produttivi in borsa, tali da determinare la crescita del paese, in modo che poi la borsa diventi un vero mercato e i risparmiatori si sentano protetti, avendo possibilità di ampia scelta. (riproduzione riservata)