Luca de Meo (Renault): vi spiego come faccio i soldi con l’auto elettrica. L’intervista esclusiva a Milano Finanza
Luca de Meo (Renault): vi spiego come faccio i soldi con l’auto elettrica. L’intervista esclusiva a Milano Finanza
I decisori europei ascoltino l’industria sulla svolta dell’elettrico. Che è necessaria, ma con maggiore flessibilità. Ed è falso che più si è grandi e meglio si compete: ecco perché. Parla Luca de Meo, ceo di Renault, casa francese che già guarda in anticipo al nuovo piano. E spiega come riesca a fare più soldi di quando vendeva un milione di auto in più

di di Andrea Boeris e Roberto Sommella 26/07/2024 20:00

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«Quando giro per Parigi con la mia R5 gialla la gente applaude e mi fa le fotografie, significa che quella è una macchina iconica», sorride soddisfatto Luca de Meo dal suo ufficio nella capitale francese con alle spalle proprio un modello della neonata di casa Renault. E il manager italiano alla guida del gruppo automobilistico francese ripeterà l’esperimento nella sua Puglia, dove gli faranno trovare un analogo modello per una tre giorni di vacanza a Locorotondo.

L’occasione per incontrare il capo azienda, che fu allievo di Sergio Marchionne («ha avuto coraggio ad affidare ad un 36enne come me il marchio che allora era il problema per il gruppo di Torino, la Fiat») ma che dall’uomo dal maglione nero vuole definitivamente distaccarsi, è la presentazione dei dati di bilancio e un confronto sulle reazioni che ha avuto la sua lettera agli stakeholder e ai politici sul futuro dell’automobile.


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Segnali di attenzione all’industria dell’auto da parte di von der Leyen

«Noi non facciamo politica, ma vogliamo che la politica sappia come stanno le cose», afferma quello che è anche il capo di Acea (i costruttori europei di auto) in questa lunga intervista esclusiva a MF-Milano Finanza, «anche perché mi sembra che ci siano dei segnali di attenzione alle nostre istanze dalla nuova Commissione di Ursula von der Leyen e dallo stesso rapporto sulla competitività che Mario Draghi presenterà a breve. Sono ottimista, dobbiamo mantenere l’obiettivo che ci siamo dati del passaggio al motore elettrico, lasciarlo sarebbe un errore, anche perché tra dieci anni ci troveremmo con auto cinesi iperconnesse».

E la sfida per l’autovettura del futuro sarebbe perduta irrimediabilmente, non solo per Renault ma anche per tutte le altre case europee, da Stellantis a Volkswagen. Ma su una cosa ci tiene de Meo a fare chiarezza con la stampa italiana nel cominciare il lungo colloquio con questo giornale: «Non parlate solo del calo dell’azione in borsa» - è giovedì 25 luglio e il titolo Renault ha lasciato sul terreno quasi il 7,5%, ndr - «ma anche di come oggi io riesca a fare più soldi di quando vendevo un milione di auto in più».

Forse è questo il futuro prossimo, vendere meno vetture ma a un prezzo più alto. Però sarebbe una lettura troppo semplicistica, perché la concorrenza, sovvertendo quello che sosteneva Schumpeter, «si fa sia sul prezzo sia sul prodotto, bisogna essere flessibili e smettere di pensare linearmente, ragionando su scenari con diverse opzioni».

Domanda. La sua recente lettera-manifesto sull’auto elettrica a tutti gli stakeholders fa molta chiarezza su quello che stiamo costruendo dentro lo spazio europeo e quello che stanno facendo americani e cinesi. Che reazioni ci sono state?

Risposta. Piuttosto positive, perché ha suscitato molto interesse e l’hanno letta tutti: media, analisti e politici. L’intenzione però non è far politica, ma fare chiarezza su alcuni fatti della transizione energetica, perché c’è troppa frammentazione in Europa e spesso manca la consapevolezza delle cose. Colpa della complessità del sistema. Ma la transizione energetica, e la sua rivoluzione, è un tema che taglia orizzontalmente industrie, Paesi e frontiere e quindi serve una forma di coordinamento molto più forte di quella che abbiamo. Questo è il tema.

D. E quindi?

R. Quindi l’intenzione era informare, far capire la nostra analisi della situazione. E dare spunti su cui poter lavorare in una logica tecnica e non politica. Dare strumenti a chi poi si ritrova magari in una commissione industria al Parlamento Europeo e deve scrivere la regolamentazione ma spesso non conosce perfettamente il tema. E credo che noi dell’auto, essendo un’industria che vale l’8-9% del pil dell’Europa, abbiamo il diritto di dire la nostra e dare un’opinione in maniera proattiva.

D. Vi ascolteranno?

R. La lettera-manifesto ha creato interesse e provocato alcune discussioni, adesso si tratterà di vedere se arriverà qualche risposta nei fatti. Ad esempio, però, abbiamo già ottenuto una maggiore flessibilità sul Green Deal nel programma generale che Ursula von der Leyen ha presentato. Ora vedremo il dossier che il presidente Mario Draghi porterà all’attenzione di tutti quanti sulla competitività e quello sviluppato da Enrico Letta sul mercato unico. Vedremo se alcune delle raccomandazioni che abbiamo dato saranno considerate. Ma ho speranza che lo facciano.

D. Draghi l’ha incontrato? Cosa vi siete detti?

R. Sì, l’ho incontrato così come ha incontrato altra gente. Anche noi abbiamo cercato di portare il nostro modesto contributo alla costruzione di questo dossier. Ma non voglio rendere pubblico niente di più. Il punto comunque è che l’industria dell’auto non può più restare passiva, perché finora la tematica Green Deal è stata affrontata senza un’analisi di impatto e il risultato è mettere in difficoltà e rischiare di giocarsi un settore che è uno dei pilastri dell’economia europea.

D. Ma ora lei è ottimista che qualcosa cambi? Magari quella data del 2035 (il divieto di vendere motori termici in Europa, ndr)?

R. Sì, ora sono ottimista. Però la questione non è il 2035 o il 2040…l’Europa ha tante varietà, ci sono specificità locali e non la si può considerare un tutt’uno. Serve una strategia industriale e la priorità è mettere in piedi un piano e dei meccanismi che siano anche di correzione e di adattamento, come si fa nelle aziende. Se ci si limita a dare scadenze e multe, questo non aiuta. Il problema è che l’elettrico è al 15%, quando sappiamo che in realtà dovremmo arrivare minimo al 22-23% nel 2025. Andrebbe quasi raddoppiata la quantità in un anno…

D. Ma l’auto elettrica non si vende…

R. In realtà io non ho mai visto nella mia carriera una tecnologia capace di passare in cinque anni da zero al 15% del mix. Questa è la verità. Come industria dell’automobile, sempre criticata e accusata di resistenza a questa transizione, abbiamo impegnato 250 miliardi dal 2020 al 2030 per l’elettrico. Ma nel mondo dell’energia e delle infrastrutture cosa hanno fatto? Io li vedo andare a rilento: bisognerebbe aumentare in media di sette-otto la velocità di installazione delle colonnine di ricarica in Europa. E c’è abbastanza energia verde a prezzi accessibili? Ancora no. I progetti di gigafactory nel frattempo rallentano. Non ne faccio una polemica, ma do un messaggio costruttivo: la situazione è questa, dobbiamo adattare i piani, ma non dobbiamo mollare l’obiettivo.

D. Perché?

R. Perché la tentazione che ora ora vedo è quella di tornare indietro. Sarebbe un clamoroso errore strategico, perché se noi tra 10 anni rinunciamo a fare l’auto elettrica, poi ci ritroviamo i cinesi che fanno delle vetture elettriche che sono super accessibili, iper connesse, e noi abbiamo perso il giro. Non voglio che l’industria europea rimanga nel ventesimo secolo. Dobbiamo confrontarci, cooperare e competere. Chiaramente non è facile, ci sono e ci saranno incidenti sul percorso, però non bisogna mollare l’obiettivo, si possono aggiustare i modi, con flessibilità, ma bisogna avanzare.

D. Anche Renault si è molto impegnata sull’elettrico, no?

R. Sì, ma in modo abbastanza smart, perché non abbiamo ingaggiato decine di miliardi, ma ci siamo assicurati di poter controllare la catena del valore.

D. Come fate producendo la R5 in Francia: quindi si possono produrre nel cuore dell’Europa modelli elettrici che siano accessibili al grande pubblico e allo stesso tempo profittevoli?

R. Sì, ma secondo me prima ci sono due aspetti da considerare. Uno è la pauperizzazione della classe media che si somma a un problema strutturale demografico: l’età media di chi compra auto in Europa è di cinquant’anni, 35 in Cina. E l’industria dell’automobile in realtà fiorisce sulla classe media. Il secondo è che l’auto elettrica è una nuova tecnologia e, come qualunque nuova tecnologia, all’inizio è più cara per gli investimenti che comporta. Ma l’industria dell’auto cosa ha sempre fatto nella storia? Democratizza le tecnologie con il tempo, questo è il suo ruolo fondamentale.

D. E come può farlo ora l’auto europea? Lei cita spesso il modello Airbus: quanto è importante che i grandi player collaborino? E dopo aver parlato con Volkswagen state discutendo con altri soggetti?

R. Sì, stiamo discutendo. Il progetto con Volkswagen lo porteremo avanti da soli, producendo la Twingo elettrica in Slovenia. Chiaramente avere Volkswagen o un altro player ci permetterebbe di ammortizzare i costi fissi su più volumi, per cui sarebbe stato ancora meglio. Però il punto è questo, lo dico spesso: sono convinto che una delle cose da fare sia tornare a utilizzare, soprattutto nelle aree urbane europee ad alta densità abitativa, le piccole vetture. E che siano elettriche.

D. Si può fare?

R. Sì, perché magari utilizziamo una batteria da 30 kW invece di metterla da 70 kW e così riusciamo a realizzare un prodotto competitivo come costi. I punti di entrata dell’elettrico in Europa sono le piccole vetture e i veicoli commerciali piccoli o medi. E noi come Renault abbiamo veramente la possibilità di essere dei campioni, perché siamo forti in questo: abbiamo la prima e unica piattaforma, quella della R5, di vetture compatte di nuove generazione in Europa. Volkswagen arriverà due anni dopo, i cinesi non sono particolarmente forti sulle piccole vetture e Stellantis ha le piattaforme multienergy, come quella della 208: ma se guardate i prezzi, la Renault 5 è 5-10 mila euro sotto. Perché? Perché è fatta per essere elettrica.

D. Qual è il vantaggio della Renault 5 elettrica?

R. Che è fatta con 1.000 pezzi. Noi in media avevamo 2.500 pezzi sulla macchina a combustione. Ora invece monto la Renault 5 in meno di 10 ore a Douai, ecco come riesco a produrre in Francia. Perché il problema è il costo del lavoro, ma se io invece di metterci 20 ore per fare una macchina ce ne metto 10, l’ho dimezzato.

D. Quindi Renault è in vantaggio anche su Stellantis. A questo punto avrebbe davvero un senso, anche industrialmente, un’intesa di qualche tipo tra voi e l’ex Fiat?

R. Non entriamo su quel terreno. Credo che Stellantis sia ben focalizzata sui suoi temi e noi in questo momento andiamo bene così. Vorrei però che ci togliessimo dalla testa questo mantra, che io ho visto e vissuto nella mia carriera, secondo il quale più grande sei e più sei competitivo.

D. Non è così?

R. Guardate semplicemente i risultati delle aziende, a quelli di Renault rispetto a chi è più grande, o molto più grande, di noi: nel contesto attuale quella teoria è confutata. Prima di tutto io faccio più soldi adesso di quando vendevo un milione di macchine in più. Ed è così da un po’. E poi dicevano che senza Nissan non potevamo sopravvivere da soli perché troppo piccoli e magicamente ora Renault fa il risultato migliore della sua storia. Perché questo? Perché questa storia della scala e della taglia bisogna saperla gestire e non è detto che funzioni sempre.

D. Ah sì? E quando funziona?

R. Volete sapere quando funziona davvero? Soltanto nel momento in cui hai una domanda stabile e crescente e operi in un settore che lavora su una tecnologia che è già molto matura: hai quattro, cinque o sei realtà che sanno fare molto bene quella cosa, li metti a gruppi di due o tre e alla fine spalmi i costi fissi su più volumi. Allora così funziona.

D. Ma…? (De Meo è un fiume in piena e si fatica anche solo a fermarlo nelle sue argomentazioni)

R. Ma se invece il mondo diventa iper volatile come quello in cui stiamo vivendo, dove la domanda sale e scende e non si capisce bene dove va il mercato tra elettrico, ibrido eccetera, allora lì devi essere agile e devi essere leggero: Renault negli ultimi quattro anni si è trasformata come nessun’altro aveva mai fatto nel settore dell’auto. E abbiamo anticipato il fatto che ci sarebbe stata molta volatilità.

D. Come avete fatto?

R. Dandoci una struttura leggera. Abbiamo fatto delle cooperazioni con cui dividiamo investimenti e rischi e non ci siamo lanciati in gigafactory da realizzare da tutte le parti, investendo miliardi. Abbiamo fatto un paio di operazioni, in maniera smart, tant’è che il nostro rendimento del capitale investito è passato da zero nel 2021 al 30% in due anni e mezzo.

D. E quindi?

R. Quindi ora riusciamo a gestire la volatilità attuale e sono convinto che Renault abbia un modello di business, ma anche di struttura e di organizzazione, che è molto adatto ai tempi che noi viviamo: è una buona combinazione tra le spalle solide di un’azienda che ha 125 anni e quegli elementi di capacità di innovazione che sono propri magari di nuove aziende e startup, che però non hanno questo tipo di solidità e tradizione alle spalle.

D. Perciò non è un caso che Renault sia in vantaggio su molti target finanziari del piano al 2030 e stia per raggiungerli con molto anticipo: ne state già preparando uno nuovo? Per quando?

R. Sì, ci stiamo pensando. Ora siamo ancora nel pieno della terza fase della «Renaulution», che consisteva nel mettere sui binari e far partire quelle sei o sette iniziative che ci avrebbero permesso di creare all’interno dell’azienda delle altre aziende per specializzarsi su certe catene del valore: Ampere sull’elettrico e software, Alpine sul premium, Horse sui motori e così via. Penso che a fine 2025, o nel primo semestre 2026, avremo messo tutto sui binari, avendo per ogni cosa una strategia chiara e cominciando ad avere per ognuna di queste una tendenza e una visibilità di profittabilità. In quel caso consegneremmo il piano con quasi cinque anni di anticipo: a quel punto, nella seconda metà del 2026, potremmo essere pronti per comunicare un nuovo piano al mercato.


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