Le crisi di Svb e Credit Suisse, sebbene esplose negli Usa e in Svizzera, possono essere un campanello d’allarme utile per l’Europa, in particolare per la politica monetaria e per la gestione delle crisi bancarie. Spesso in passato il Vecchio Continente ha preso la giusta direzione soltanto dopo essersi trovato vicino al baratro. Adesso non si è in una situazione così critica. Perciò c’è il rischio di tornare a commettere presto gli stessi errori. Ma correggere la rotta (invece che «mantenere la rotta», il motto utilizzato fino a pochi giorni fa dalla presidente Bce Christine Lagarde), sulla scia di quanto mostrato dall’esperienza di altre aree geografiche, renderebbe più solida un’area che è strutturalmente fragile per l’assenza di una governance comune.
Le vicende di Svb e Credit Suisse sono innanzitutto un monito per la politica monetaria. In tal senso è stato importante il consiglio direttivo della Bce del 16 marzo. Nella riunione Francoforte ha alzato i tassi di 50 punti base, confermando la linea che era stata annunciata nei mesi precedenti, senza fermarsi neppure in una fase di forte turbolenza per le banche.
Così però la Bce si è esposta al rischio di nuova significativa volatilità in Europa. I problemi di Credit Suisse non sono risolti. La banca ha continuato a perdere terreno in borsa trascinando al ribasso il settore europeo. I cds sono ancora a livelli altissimi e segnalano un forte rischio default. Non è detto che per Credit Suisse sia trovata in poco tempo una soluzione definitiva. Se ci saranno nuovi scossoni, allora saranno inevitabili paragoni tra l’ultimo rialzo Bce e quelli del 2008 e del 2011, nel pieno della crisi finanziaria e del debito sovrano. È difficile pensare che la banca centrale avrebbe deciso una manovra di 50 punti base in questa fase, se non ci fosse stato un impegno anticipato a farlo.
Contemporaneamente la Bce sembra però aver riconosciuto l’errore e aver corretto la rotta, se non per il presente almeno per il futuro. Sono stati eliminati annunci predefiniti e indipendenti dal contesto economico e finanziario. Al contrario ci sarà piena attenzione ai segnali che arriveranno dai dati. La Bce è così uscita dalla gabbia in cui si era messa finora, con l’obiettivo di rassicurare i falchi sui rialzi successivi dei tassi. Non c’è più il proposito di aumenti «significativi a passo costante», che invece era evidenziato nella dichiarazione introduttiva di febbraio.
Le vicende di Svb e Credit Suisse potrebbero spinto la Bce a una maggiore cautela. Il picco dei tassi sarà al 3,25% a giugno secondo le attese dei mercati monetari. Così mancherebbe un solo rialzo dello 0,25%. Fino a pochi giorni fa la previsione era oltre il 4%. Il governatore falco austriaco Robert Holzmann si era spinto fino al 4,5%. Ma c’è chi ritiene che la Bce abbia già terminato la stagione dei rialzi. Tra questi Jp Morgan Am, secondo cui la crisi bancaria negli Usa potrebbe tradursi in condizioni creditizie più severe e in un forte rallentamento globale dell’economia. Di certo non si placheranno le richieste dei falchi per nuovi rialzi dei tassi, come è apparso chiaro dalle dichiarazioni di alcuni governatori baltici il giorno successivo a quello del consiglio direttivo. L’approccio cauto invece è da tempo sostenuto dal membro del comitato esecutivo Fabio Panetta e dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco.
«Se lo scenario di base persiste, ci sarà ancora molta strada da percorrere sui tassi. Ma è un grande caveat», ha detto Lagarde. In realtà anche le proiezioni di base indicano che manca poco al picco. L’obiettivo del mandato Bce è soltanto uno: un’inflazione al 2% nel medio termine. Ebbene, le ultime stime di Francoforte prevedono un dato al 2,1% nel 2025 (2,2% al netto di energia e cibo). Questi valori peraltro sono aggiornati al primo marzo, quindi sono stati definiti dallo staff Bce prima delle tensioni bancarie, come ha detto Lagarde.
Inoltre sull’inflazione continuano a pesare gli stimoli fiscali (per lo 0,5% nel 2024 e per lo 0,2% nel 2025) e i margini delle imprese che potrebbero sgonfiarsi senza creare il problema di una spirale salari-prezzi. Le aspettative sono ancorate al 2%. Secondo le attese di consumatori, analisti e della stessa Bce ci vorrà tempo prima che lo shock energetico sia riassorbito (sempre che non ce ne sia uno nuovo), ma alla fine l’inflazione tornerà all’obiettivo. Non è quindi uno scenario che richieda ulteriori strette significative dopo quelle varate da luglio. Il calo del carovita sarà più evidente da marzo, come ha preannunciato Lagarde. Hsbc per esempio si aspetta un dato dell’Eurozona in calo dall’8,5% di febbraio al 6,8%.
Per guidare i mercati Lagarde ha indicato la «funzione di reazione» della Bce che sarà basata sull’outlook di inflazione (alla luce dei dati economici e anche di quelli finanziari, finora sottovalutati), sulla dinamica dell’inflazione di fondo e sulla trasmissione della politica monetaria attraverso il credito. Si tratta di un’evoluzione positiva anche se Lagarde ha parlato di strumento «nuovo, mai discusso prima», lasciando intendere che finora la Bce si è mossa senza una precisa funzione di reazione.
Una maggiore cautela potrebbe esserci non solo sui tassi ma anche sul Quantitative Tightening: un’accelerazione prima della turbolenza bancaria era stata richiesta dalla Bundesbank, convinta pochi giorni fa che non ci fosse ragione di temere volatilità di mercato. Ma il tema non è stato poi neppure discusso nel consiglio direttivo.
Le crisi bancarie fuori dall’Europa potranno avere conseguenze anche per le nuove regole sui dissesti che l’Ue sta definendo in questi giorni e che dovrebbero essere presentate a breve, probabilmente attorno al periodo di Pasqua, come riportato su MF-Milano Finanza del 16 marzo. L’Europa ha regole di vigilanza più severe di quelle Usa, dove i requisiti di Basilea non sono applicati agli istituti con asset sotto 250 miliardi per effetto della deregulation dell’era Trump. Inoltre i supervisori europei sono più attenti agli squilibri sulla liquidità. Il consiglio di Vigilanza Bce si è già riunito per analizzare il possibile impatto sul settore bancario, che nel complesso è solido, anche se potrebbero esserci casi di istituti più vulnerabili.
In discussione però ci sono ora gli strumenti per le crisi. Sul punto l’Europa è indietro rispetto agli Usa perché non dispone di una garanzia comune sui depositi e il bail-in è una causa di instabilità. Le autorità Usa hanno protetto tutti i depositi di Svb, anche quelli oltre 250 mila euro che di norma non sono garantiti. La Commissione Ue vuole estendere risoluzioni (e quindi anche il bail-in) alle banche medie con l’obiettivo di dare loro un meccanismo di gestione dei dissesti che non sia la sola liquidazione. Il pacchetto legislativo è chiamato Cmdi (Crisis management and deposit insurance). Estendere le risoluzioni alle banche medio-piccole genera però alcuni problemi. Gli istituti minori, poiché meno presenti sui mercati, hanno difficoltà ad emettere titoli rischiosi svalutabili nelle crisi (i cosiddetti Mrel). Inoltre un eventuale bail-in intaccherebbe l’8% del passivo e quindi colpirebbe con ogni probabilità obbligazionisti senior e depositanti. Sarebbe un’eventualità molto pericolosa.
Alcuni Paesi come Italia, Spagna e Portogallo, consapevoli dei rischi per la stabilità finanziaria che sarebbero causati dal bail-in di una banca medio-piccola, vorrebbero far partecipare il più possibile alle perdite delle crisi i fondi di garanzia nazionali (come l’italiano Fitd, Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi). Così i fondi, alimentati a livello nazionale, potrebbero contribuire almeno in parte all’8% del bail-in, evitando perdite per i depositanti e attivando il fondo Ue di risoluzione per perdite ulteriori.
Questo però è un punto non gradito da Germania, Olanda e Paesi nordici perché il fondo europeo è invece costituito da risorse delle banche Ue. Questi Stati temono di dover contribuire a salvare istituti medio-piccoli in altri Paesi. Per la stessa ragione anche la Francia è contraria, dato che il suo settore finanziario è fatto soprattutto di grandi gruppi. Ora la Commissione Ue dovrà trovare un punto di equilibrio.
Le crisi bancarie hanno portato maggiore consapevolezza per una politica monetaria e una gestione delle crisi più attente ai rischi di instabilità finanziaria. Ma ora serve che tutto questo si traduca in azioni concrete. Restano forti nel Nord Europa le pressioni per ingenti rialzi dei tassi (per il timore dell’inflazione) e per risoluzioni bancarie punitive per obbligazionisti senior e depositanti (per il timore di condivisione delle perdite). In tal senso sarebbe necessario ricordarsi delle politiche sbagliate dal 2008 in poi. Per l’Eurozona lo strumento più prezioso nei prossimi mesi potrebbe essere la memoria delle crisi passate e presenti. (riproduzione riservata)