Covid, cura universale cercasi
Covid, cura universale cercasi
Gli Stati Uniti hanno già prenotato 1,2 miliardi di dosi, che coprono il 200% della popolazione. Il Canada ne ha per il 578% e l’Italia per il 241%. Intanto un report di Deutsche Bank individua chi saranno i produttori del farmaco definitivo

di Paola Valentini 27/02/2021 02:00

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La medicina di guerra, oggi alle prese con la lotta contro le varianti del Covid-19, vede un nuovo campo di battaglia. Il vaccino universale. «Credo che abbiamo la capacità scientifica di sviluppare quello che chiamiamo il vaccino universale contro il coronavirus», ha detto nei giorni Anthony Fauci, immunologo a capo dell’emergenza sanitaria in America, «serve una copertura contro tutte le mutazioni, ma anche l’intero spettro della famiglia dei coronavirus». Fauci ha affermato che è probabile che questi coronavirus abbiano già colpito la civiltà umana centinaia di anni fa. «Negli ultimi 18 anni siamo stati già oggetto tre volte di attacchi pandemici o potenziali pandemici, quindi vergogniamoci se non sviluppiamo il vaccino universale contro il coronavirus», ha detto Fauci. Ma per via delle perdite umane ed economiche soltanto il Covid-19 ha avuto una potenza di fuoco tale da far accendere i riflettori sugli studi e le tecnologie che potrebbero davvero ottenere il vaccino pan-coronavirus. Un passo avanti fondamentale per evitare di mettere a punto nuovi antidoti ogni volta che compare una variante e quindi di sottoporre la popolazione a nuovi richiami. «Abbiamo il vantaggio di imparare dalle inadeguatezze della prima generazione di vaccini per migliorare la seconda generazione», ha affermato Lindy Durrant, immunologa presso l’Università di Nottingham.
Intanto si può fare un bilancio della prima generazione di vaccini a poco più di due mesi dall’avvio della campagna di copertura, iniziata il 13 dicembre scorso in Regno Unito, come emerge dal calendario elaborato da Ubs Evidence Lab. A partire dagli Usa dove dal 20 dicembre, oltre 66 milioni di dosi sono state somministrate, l’80% di quelle in magazzino, mentre i Paesi Ue hanno ricevuto più di 60 milioni di dosi ma le persone coperte sono la metà, attorno ai 30 milioni, ovvero il 6,4% della popolazione. Non a caso il premier Mario Draghi ha chiesto all’Ue di velocizzare l’immunizzazione. In Italia la campagna, procede a rilento, anche a causa di problemi organizzativi delle Regioni, dopo il buon avvio per il personale sanitario (dal 27 dicembre). In particolare la somministrazione del vaccino Astra Zeneca, le cui spedizioni sono iniziate il 9 febbraio, è in ritardo: soltanto il 20% delle dosi consegnate sono state iniettate.
Una visione favorevole, nonostante questi ritardi nelle consegne che hanno contraddistinto l’avvio della campagna di vaccinazione, arriva da Deutsche Bank. «Rimaniamo ottimisti e continuiamo a credere che il mercato stia sottovalutando quanto siano positive le prospettive per le economie avanzate», afferma Robin Winkler, strategist di Deutsche Bank. «È chiaro che i produttori stanno lottando per fornire il vaccino concordato contrattualmente con i governi l’anno scorso. Tuttavia, se i singoli produttori non soddisfano del tutto le aspettative, il numero di aziende che ha sviluppato vaccini efficaci ha superato le attese. E c’è sicurezza nei numeri. Con altri tre produttori, Johnson & Johnson, Novavax e il Gamaleya Institute of Russia, che hanno presentato ottimi risultati dei test nelle ultime due settimane, è solo questione di settimane prima che la capacità di produzione smetta di essere un vincolo per le economie avanzate», argomenta Winkler. A partire dagli Usa che hanno appena dato l’ok al vaccino monodose di Johnson & Johnson, con efficacia del 66,1%, decisamente inferiore a vaccini a mRna come quelli di Moderna e Pfizer-Biontech, ma che comunque assicura una prevenzione delle infezioni gravi. Il vaccino di J&J diventa così il terzo approvato negli Usa.
Secondo le stime di Deutsche Bank è probabile che le forniture mensili dei vari produttori superino le 100 milioni di dosi da aprile in poi. In base all’osservatorio di Ubs Evidence Lab, gli Usa sono il Paese ha mondo che a oggi ha prenotato più dosi di vaccino: 1,2 miliardi, di cui 300 milioni da Astra Zeneca, altrettante da Pfizer-Biontech e Moderna, 110 milioni di Novavax e 100 milioni ciascuna da Novavax e Sanofi/Gsk. Un ammontare che copre il 198% della popolazione. Ma è superato in valore relativo dal Canada i cui contratti su 398 milioni di dosi permettono di vaccinare il 578% dei suoi cittadini. L’Italia può contare su 264 milioni di iniezioni, in grado di immunizzare il 241% degli abitanti considerando anche i vaccini di Sanofi Gsk, Johnson & Johnson, CureVac, e i contratti con Novavax e Valneva (questi ultimi due non ancora approvati).

«Sia Pfizer che Moderna si sono impegnati in modo credibile a fornire i loro vaccini nei tempi previsti, e gran parte della nuova fornitura che sarà disponibile nei prossimi due mesi proverrà da J&J, che farà molto per aumentare la copertura vaccinale grazie al fatto di essere uno vaccino a una dose», osserva lo strategist della banca tedesca. Tanto che, prevede Deutsche Bank, «il flusso di approvvigionamento sembra così abbondante che gli Stati Uniti potrebbero presto raggiungere un punto di saturazione in cui i preordini sia da AstraZeneca che da Novavax potrebbero superare la richiesta. Questa non sarebbe solo una buona notizia per gli Stati Uniti», aggiunge Winkler. Lo sarebbe anche per l’Europa dove le quantità di spedizioni da Pfizer e AstraZeneca non hanno rispettato gli accordi contrattuali, ma «aumenteranno comunque in modo significativo da marzo in poi. Inoltre, Moderna sta iniziando solo ora a spedire prodotti nell’Ue da una fabbrica in Svizzera e grandi quantità di vaccino J&J dovrebbero iniziare a essere inviate da aprile in poi», aggiunge lo strategist di Deutsche Bank. Se si ha la sensazione che l’Ue non sia riuscita a procurarsi adeguate scorte di vaccini, «c’è anche l’idea diffusa che i regolatori europei stiano seminando inutili limitazioni. Ma i vincoli normativi possono essere rimossi dall’oggi al domani», spiega Winkler. Ad esempio, mentre i singoli Stati hanno raccomandato che le persone con più di 65 anni (e in alcuni casi oltre i 55) non siano vaccinate con AstraZeneca, negli ultimi giorni le autorità europee, alla luce delle nuove prove degli studi, convergono sulla distanza di 12 settimane tra prima e seconda dose, anziché le tre previste, che viene già applicata dal Regno Unito ai vaccini AstraZeneca e Pfizer. In futuro, «se Pfizer o Moderna produrranno test simili, è probabile che anche i regolatori europei distanzieranno le inoculazioni di questi vaccini. E se AstraZeneca fornisse prove più certe sull’efficacia dei suoi vaccini per gli over 65, e uno studio sul tema sembra imminente, allora ancora una volta le autorità europee potrebbero cambiare le loro raccomandazioni», dice Winkler.

Le proiezioni di Deutsche Bank indicano che nel Regno Unito la quota della popolazione coperta con almeno una dose sarà del 40% entro fine marzo, gli Stati Uniti arriveranno a questo livello a metà aprile e l’Ue entro metà maggio (si veda tabella). Inoltre, Deutsche Bank stima che i tassi di vaccinazione negli Usa e nel Regno Unito raggiungeranno il massimo entro fine agosto, mentre l’Ue potrebbe andare sopra al 70% da ottobre. Va tutto bene in Israele che ha offerto l’unico test valido perché ha fatto progressi rapidi dopo Natale e perché raccoglie più dati rispetto agli Usa o al Regno Unito. «I primi numeri provenienti da Israele sono stati rassicuranti sul fatto che il vaccino Pfizer funziona così come gli studi suggerivano», dice Winkler (si veda grafico). Ma il mercato per ora resta più concentrato sulle mutazioni del virus che sull’implementazione delle vaccinazioni. Preoccupa che il nuovo ceppo endemico in Sud Africa potrebbe essere significativamente più resistente ai vaccini. Nel frattempo si moltiplicano gli studi contro le mutazioni. Moderna nei giorni scorsi ha annunciato di aver iniziato a testare una versione del suo vaccino aggiornata per fornire una protezione dalla variante isolata in Sud Africa. Così facendo, la società biotecnologica Usa potrebbe diventare il primo produttore di vaccini ad aver completato il lavoro di progettazione in laboratorio di un siero mirato contro i nuovi ceppi che hanno iniziato a diffondersi dalla fine dello scorso anno. Secondo le dichiarazioni dell’ad di Moderna, Stephane Bancel, in caso di esito positivo dei test l’azienda richiederà l’autorizzazione per l’uso di emergenza, che potrebbe arrivare nel terzo trimestre dell’anno. Anche Pfizer e Johnson & Johnson si stanno attrezzando per modificare i loro vaccini o per lavorare a una dose di richiamo mirata contro le nuove varianti.
«Su questa questione ci sono stati numerosi nuovi dati, la maggior parte dei quali rassicuranti. Per ora, quindi, ci sono buone ragioni per aspettarsi che la prima generazione di vaccini sia efficace anche contro la variante sudafricana quando si tratta della metrica più cruciale: la protezione contro le malattie gravi. È probabile che i vaccini siano efficaci contro le nuove varianti di ceppi come contro quelli vecchi», osserva Winkler. Ciò detto, vi è ora un consenso sul fatto che in futuro potrebbero essere richiesti richiami annuali. Mentre fino alla fine dell’anno scorso si pensava che l’efficacia fosse così alta da promettere un’immunità duratura simile a molti vaccini per l’infanzia.
«Anche per i Paesi che potrebbero lottare di più contro nuove varianti, tuttavia, esiste una prospettiva realistica a medio termine di un vaccino che funzioni su un ampio spettro di ceppi», continua lo strategist di Deutsche Bank. Un vaccino universale punterebbe a colpire direttamente il nucleo di qualsiasi coronavirus, addestrando il sistema immunitario. Per l’influenza stagionale, la ricerca di un vaccino universale è stata per decenni come la caccia al Santo Graal. Ma gli incentivi economici non hanno giocato a favore: è più interessante generare un ritorno annuale su un prodotto vaccinale consolidato piuttosto che spendere un decennio alla ricerca di un vaccino una tantum o una volta per decennio che dovrebbe essere valutato a centinaia di dollari a dose per recuperare l’investimento. Gli antinfluenzali universali sarebbero un vero bene pubblico, ma fino a tempi recenti i finanziamenti pubblici sono stati scarsi. «Solo negli ultimi due anni sono stati investiti maggiori fondi e un paio di vaccini hanno già prodotto risultati promettenti nei primi studi clinici. Per quanto riguarda i coronavirus, esiste un potenziale simile. Gli sforzi per la ricerca di vaccini universali dopo l’epidemia di Sars finirono presto. Ma recentemente due produttori, Gsk e Curevac, hanno già avviato la ricerca su un vaccino universale», conclude Winkler. (riproduzione riserva