Non credo ci sia qualcuno che in questo momento vorrebbe essere nei panni del ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti. Con il rigore che ha imparato alla Bocconi, la sua sofferenza deve essere estrema a dover varare una manovra in cui l’astronomico debito pubblico italiano è permanentemente sotto la minaccia del ritorno in vigore del vecchio Patto di stabilità (Stability & growth pact), che richiede il rispetto di alcuni fondamentali parametri di bilancio degli stati: il deficit pubblico, cioè la differenza fra entrate e uscite inclusi gli interessi, non deve superare il 3% del prodotto interno lordo (pil) e il debito pubblico non dovrebbe superare il 60% del prodotto interno lordo. È pur vero che molti altri paesi (inclusa la Francia) non rispettano questi indici fissati soprattutto sotto il rigorismo, talvolta fuori della realtà, della Germania, ma la situazione italiana, è noto, fra i grandi paesi europei per di più fondatori dell’Unione, è la peggiore in assoluto. E il ministro Giorgetti ha potuto arrangiare un piano che comunque prevede il 4,3% di deficit fra entrate e uscite, mentre l’astronomico debito pubblico, che quest’anno è stato pari al 140,2% del pil, viene ipotizzato in riduzione soltanto al 140,1%, cioè un miglioramento di appena 10 centesimi di punto.
Ma soprattutto ci sono molti dubbi che anche questi target possano essere rispettati, perché la benzina che il governo ha programmato di immettere nel sistema economico italiano è appena di 14 miliardi, mentre quelle che erano solo nubi sulla recessione sono diventate un cielo tempestoso. E infatti anche sulla crescita del pil, il bravo ministro ha lanciato il cuore oltre l’ostacolo ipotizzando, nella quadratura dei conti, un +1,2%. Non dico che neppure lui ci creda, ma certo, con una inflazione che non si vedeva da vari lustri generata in primo luogo dalla guerra della Russia all’Ucraina e curata erroneamente solo con l’elevazione alle stelle del costo del denaro dalla Bce, sperare anche in una crescita di poco più dell’1% appare più che utopistico. Se andrà bene, il paese non andrà in recessione. Ma che ci possa essere crescita è davvero una pia speranza e di maniera, almeno nel contesto attuale.
Ma non sarebbe onesto pensare che Giorgetti non stia facendo tutto quanto può.
È suonato, specialmente in Europa, un allarme come non accadeva da anni. E la maggiore responsabilità di un periodo doloroso per tutta l’Unione è della Bce. La quale ha pensato di potersi comportare come la Fed americana, che ha strutture e poteri completamente diversi e un sistema economico e istituzionale degli Usa assolutamente all’opposto della Ue.
Prima di tutto, la Fed è una banca centrale federale, a capo di tutte le banche centrali degli stati e gli stati negli Usa non possono fare debito, se non per finanziare le opere strutturali. Il debito lo può fare solo la Fed, che ha quindi il pieno controllo del mercato e ha una moneta, il dollaro, che nonostante alcuni ammaccature dopo le presidenze Trump e Biden, è ancora la principale moneta del mondo. Quindi, alzando o abbassando i tassi sul dollaro la Fed ha la possibilità di incidere realmente sulle evoluzioni del ciclo economico. In più non deve rispondere a nessuno, se non al mercato, se stampa moneta e se fa aumentare, anche enormemente, il deficit federale, perché i singoli stati non hanno debito e quindi possono operare senza gravami.
Alla presidente della Bce, Christine Lagarde, è mancata l’autorità per poter contenere la pressione dei due membri tedeschi dell’esecutivo della banca, espressione del sacro terrore della Germania dell’inflazione e del suo deficit pubblico che non supera il 70% del pil. Costoro hanno spinto perché si curasse l’inflazione da guerra in Ucraina con la sola medicina dell’aumento dei tassi e delle stretta monetaria, dopo anni, dal 2012, in cui l’Europa si era retta sulla politica pensata e attuata da Mario Draghi, consapevole, con spirito americano, che si usciva dalla recessione drammatica del post Lehman solo dando al mercato tutta la liquidità che serviva e a costo bassissimo. Non a caso, l’unico membro dell’esecutivo della Bce, che il 28 luglio del 2012 votò contro la scelta di Draghi fu il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. La linea tedesca è sempre la stessa, con l’aggravante di un governo composto da tre partiti (socialisti, liberali, verdi) con posizioni non proprio convergenti e senza un cancelliere con l’esperienza e l’autorevolezza di Angela Merkel.
Una delle poche voci che si sono levate con forza contro l’interminabile aumento dei tassi da parte di Lagarde è stata quella del governatore uscente della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che ha invitato alla prudenza e moderazione nel continuo rialzo del costo del denaro, che è il carburante dell’economia e del suo sviluppo.
È inevitabile: il continuo rincaro del costo del denaro ha l’effetto di raffreddare l’economia e alla lunga l’inflazione, ma appunto con un costo enorme per tutti, se non si opera con misura. Il costo è infatti la recessione. Realtà che, anche se per altre cause, si è verificata proprio per prima, in Germania, guarda caso il paese sostenitore del rigore per il rigore.
Seguire la Fed e anzi andare oltre è stato ed è doppiamente sbagliato, perché da una parte la Fed governa un paese in cui il debito è dello stato federale, quindi unico, mentre nella Ue ogni paese ha una sua realtà, un suo debito pubblico, un suo regime fiscale, una sua politica economica; dall’altra parte perché ci sono nette divergenze ideologiche e politiche fra i vari stati membri, che conservano la loro autonomia e quindi con istanze diverse che trovano un punto di unificazione solo nella moneta, l’euro. In Usa anche gli stati possono essere divergenti, ma il debito e la politica monetaria è unica e in definitiva l’economia americana, grazie anche agli Ott della tecnologia è dominante nel mondo. E il dollaro resta il simbolo di questa potenza.
Non a caso quando, per le sanzioni decise da Barack Obama in seguito alla conquista della Crimea da parte della Russia, nacque la prima alleanza fra la stessa Russia e la Cina, il primo provvedimento comune dei due nuovi alleati fu quello di non usare più il dollaro come moneta universale di scambio, sostituendola, per i pagamenti tra loro, nelle rispettive monete, i rubli e gli yuan.
Il vero dramma dei paesi della Unione Europea è quello di vivere una unione più che imperfetta e quindi pochissimo efficace. E pensare che in questo contesto qualcuno, in conseguenza della guerra in Ucraina, ha lanciato come soluzione quella di far passare la Ue da 27 a 36 stati. Potrebbe essere un rimedio di difesa militare ma certo sarebbe una follia sul piano economico. Le divergenze in campo economico sono così macroscopiche all’interno dell’attuale Unione, costituita a tappe comunque misurate se non proprio razionali, che pensare di salire a 36 stati non farebbe altro che accrescere le divergenze. Se fra i maggiori paesi della Ue non si riesce a trovare una convergenza neppure su un tema cruciale come quello degli immigrati, figuriamoci cosa succederebbe con l’ingresso di altri nove stati essenzialmente per ragioni pseudo difensive. E un altro aspetto fondamentale da tenere presente per comprendere come la Ue sia unione debole è la disparità fiscale, anche quando vengono realizzate strutture fondamentali come la Borsa. Si chiama pomposamente Euronext: ma come potrà diventare la Borsa europea se ad essa non hanno aderito né Francoforte né Madrid e se soprattutto si consente al suo interno di compiere, da parte di Amsterdam, una concorrenza sleale rispetto alle altre Borse nazionali, in primo luogo con lo strumento fiscale ma anche con normative societarie completamente diverse non solo da quelle italiane ma anche da quelle francesi, essendo per di più la sede di Euronext a Parigi?
Ma ci si rende conto per quanti secoli ogni stato europeo ha fatto vita propria e spesso uno contro l’altro? Sarebbe, l’ulteriore allargamento, come costruire una grattacielo senza fondamenta. Aumentare gli stati membri e solo per ragioni difensive, senza affrontare il tema fondamentale per i cittadini dello sviluppo economico, dell’equiparazione fiscale, della unificazione del sistema scolastico per non parlare delle lingue, affidandosi solo alla moneta unica per potersi considerare un Unione vera, è profondamente sbagliato. L’allargamento dell’Unione europea non va neppure nominato fino a quando non sarà verificata una chiara convergenza delle idee fondamentali, delle strutture politiche, dell’istruzione paritetica di tutti gli stati che sono già membri della Ue. Per la difesa c’è già la Nato.
La conclusione è drammaticamente una, specialmente sul piano economico e finanziario: se gli stati membri non si mettono d’accordo sulla convergenza delle loro politiche economiche e finanziarie, la Ue diventerà sempre più terra di conquista e di divergenza. In questo contesto, se l’Italia non si aiuta da sola e non riesce a tagliare il debito complessivo, avrà davanti un futuro davvero buio. Nessuno, in questo contesto, può invidiare il ministro Giorgetti, al quale deve andare il ringraziamento per la calma e la razionalità che riesce a mantenere.
«Unipol scala popolare di Sondrio». È il titolo con cui giovedì 28 MF, questo giornale (ma non è stato il solo) ha dato la notizia che la grande compagnia di assicurazione guidata da Carlo Cimbri ha ottenuto l’autorizzazione da Bce e Bankitalia a salire fino al 19,5%, dall’attuale 10, nella ex-banca popolare più efficiente del paese. E il pensiero è andato subito alla possibile fusione della Banca di montagna con Bper, dove da tempo Unipol ha già quasi il 20%.
Sono tutte e due ipotesi realistiche, ma secondo il pensiero di Cimbri l’obiettivo non è né quello della scalata, cioè della presa di comando della banca guidata da Mario Alberto Pedranzini, né quello di arrivare alla fusione. Cimbri è consapevole della grande importanza dell’identità fra una banca e il suo territorio, guidando da tempo il grande gruppo assicurativo che è nato con base il sistema delle cooperative emiliane ed è controllato dalle stesse cooperative. E con abilità indiscussa è andato a diventare socio di due delle ex popolari con maggiore radicamento nel territorio. A quale fine? Al fine di sviluppare l’integrazione di prodotto fra polizze e servizi bancari.
Da quando Unipol è entrata in Bper, che ha la stessa sua matrice emiliana, Bper è tornata a nuova vita con uno sviluppo non comune. Ma proprio entrando in Bper, Cimbri ha toccato con mano quanto sia importante, pur nella mutata forma societaria, mantenere vivo lo spirito delle vecchie banche popolari, che, come Unipol, si sono nutrite dello spirito cooperativo.
Avere la partecipazione più rilevante (ma non di controllo) delle due ex-popolari realizza un’efficace combinazione fra polizze e servizi bancari in due territori sani: il che per Unipol è non solo saggio ma anche un ottimo affare, perché la combinazione non potrà che far salire il valore dell’investimento. E poi quanto è avvenuto non è che un rafforzamento di quanto già era in essere, visto che Unipol era già socio al 10% e con un congruo accordo per la vendita da parte della banca delle polizze e dei servizi Unipol. In particolare nel settore salute, che è quello destinato al maggior sviluppo. E da quando l’accordo è stato fatto, i risultati sono molto positivi, superiori ai target fissati. Non è azzardato pensare che il modello di partecipazione a banche con cultura cooperativa possa essere esteso da Unipol ad altre banche, anche se non è facile trovarne con l’efficienza di Bper e di Sondrio.
Ma c’è anche un’altra ragione per cui Cimbri può aver deciso di crescere in Sondrio. Può essere una sorta di polizza di assicurazione affinché al momento dell’uscita dello stato da Mps non venga chiesto a Unipol di farsene carico. E non perché Mps non sia tornata a essere una banca efficiente, ma per la diversa natura, non cooperativa, che ha e naturalmente anche per l’entità dell’investimento che potrebbe comportare Mps. In fin dei conti, che cosa c’è di meglio che diversificare e moltiplicare lo schema bancassurance con vari partner che hanno cultura cooperativa e che presidiano territori ad alta potenzialità?
C’è un punto, infine, chiave. La sintonia possibile di Cimbri e del suo staff con gli uomini che guidano le banche. In Bper dopo l’investimento di Unipol è arrivato un manager di grande esperienza, Piero Luigi Montani, che aveva avuto la sua formazione nella Banca popolare di Novara e che ha rilanciato la banca emiliana con energia e risultati immediati. Con Mario Pedranzini, Cimbri ha cementato il rapporto in occasione dell’ultima assemblea della Sondrio, quando con il 10% allora posseduto Unipol ha votato perché la gestione della banca rimanesse in mano a chi l’ha sviluppata molto bene negli ultimi anni.
Di fatto, con l’aumento della partecipazione in Sondrio, Cimbri ha rafforzato e codificato un modello vincente perché sviluppa la bancassurance conservando lo spirito non rinunciabile, anche se il mondo è cambiato, delle cooperative. L’essere lui portatore del 2% di Mediobanca non fa dimenticare come è nata la grande Unipol. (riproduzione riservata)