ChatGpt e AI senza regole minacciano copyright, media e democrazia. Banche, perché FdI dovrebbe rileggersi la storia economica
ChatGpt e AI senza regole minacciano copyright, media e democrazia. Banche, perché FdI dovrebbe rileggersi la storia economica
Una società civile per progredire ha bisogno che chi trasmette conoscenza agli altri possa trarre dal suo pensiero e dal suo lavoro un giusto compenso. Per questo ChatGpt va regolato. La proposta di FdI di separare banche commerciali e banche d’affari è antistorica. In Italia fanno troppo poca attività di investimenti: così 1700 miliardi di risparmio rimangono sui conti correnti 

di di Paolo Panerai 31/03/2023 21:50

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Chi legge Orsi&Tori ha saputo a novembre dell’anno scorso che il più grande scienziato italiano dei big data e dell’intelligenza artificiale, il professor Mario Rasetti, e mio figlio Luca avevano deciso di creare RobinHoodAI, cioè il protettore dei più deboli dagli effetti negativi dell’intelligenza artificiale, come Robin Hood difendeva la gente povera e disinformata.

Mercoledì 30, mille imprenditori, tecnici, docenti guidati da Elon Musk, che aveva finanziato OpenAI ChatGpt, l’ultima frontiera della AI, hanno chiesto di stoppare per almeno sei mesi l’ulteriore progresso nei sistemi. E del resto che uno sviluppo non regolato e misurato della nuova intelligenza artificiale, cioè quella dei chatbot, richiedesse un intervento delle autorità lo aveva segnalato già nel 2015 Sam Altman, che di OpenAi è stato l’inventore.

L’appello di Musk e l’allarme del New York Times su ChatGpt

In sintonia, anche senza firmarlo, con i mille firmatari dell’appello, Altman pochi giorni fa in una intervista a Kara Swisher del New York Times ha avvisato sul rischio di minacce che altre Chat potrebbero creare, destabilizzando la società civile, con attacchi alla sicurezza informatica, con disinformazione e altri fenomeni destabilizzanti, perfino ora imprevedibili.

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Ma su tutti, e non per interesse di categoria, va risegnalata la distruzione di uno dei capisaldi dei diritti della società della comunicazione: il rispetto del copyright per tutti coloro che pensano e realizzano, cronisti o grandi scrittori che siano. Il rischio è che avvenga su scala mondiale quello che era, se vogliamo, il reato più grave di uno scolaro o di uno studente: copiare. Copiare il compito del compagno, copiare da un libro, copiare una traduzione.

La necessaria protezione del copyright anche dalla AI

Una società civile per progredire ha bisogno di pensiero, pensiero di chi sa e con lo scritto o a voce è in grado di trasmettere conoscenza agli altri e di trarre dal suo pensiero e dal suo lavoro un giusto compenso. Senza considerare che per evadere il copyright è già oggi diffusa sulla rete, prima ancora dell’arrivo delle Chat di AI, una sequela di notizie leggermente modificate, che si trasformano spesso in fake news, partendo da un dettaglio vero, inquinando quindi le conoscenze dei cittadini, con grave danno per la democrazia.

Per questo negli Usa i maggiori giornali si sono già attivati per difendere il loro copyright. Il primo è stato The Wall Street Journal. Ha scritto il nostro collega e amico Robert Thomson, ceo di tutto il gruppo Murdoch: «È chiaro che le Chat stanno utilizzando contenuti di proprietà che ovviamente ci devono essere pagati». E il New York Times ha compiuto un test pubblico per dimostrare che Bard, la Chat di intelligenza artificiale di Google, ha rielaborato dei testi del quotidiano americano sulle relazioni Usa-Russia senza fornire link diretti al sito della testata.

Come si è visto una settimana fa, per gli ultimi due decenni Google ha ritenuto che la ricompensa per l’uso di contenuti di terzi fosse il fatto che, come motore di ricerca, inviasse utenti sui siti ai quali i contenuti appartenevano. In realtà erano in pratica compensi minimi perché la maggior parte della pubblicità derivante dalla lettura di contenuti se l’è sempre presa Google: basti pensare che in Italia ha conquistato quasi 2 miliardi di pubblicità su un totale di 8 del mercato, sottraendola a tutti gli altri media e pagando le tasse su 70 milioni grazie allo schema che la società italiana lavora come agenzia mentre il ricavato va in Irlanda, dove la tassazione è quasi insignificante.

La lite tra Meta-Facebook e la Siae sui diritti musicali

È questo dei ricavi un aspetto rilevantissimo per l’informazione dei media tradizionali, che garantiscono il principio costituzionale che i cittadini hanno diritto a essere informati. Ma non è l’unico abuso, come del resto avveniva per la musica trasmessa su internet. È notizia nota che, per esempio, Meta-Facebook si è rifiutato di firmare il contratto con la Siae (Società italiana autori ed editori) che incassa per chi fa musica o comunque ha un copyright da proteggere.

L’allarme lanciato da più di mille protagonisti dell’evoluzione dell’intelligenza artificiale con ChatGtp (arrivato ora alla release 4 ma è già pronta la 5) dovrebbe far capire ai governi, a quello europeo e a quello di ciascun paese del continente, ma ovviamente anche a Washington, che non c’è tempo da perdere per creare una regolamentazione che protegga i cittadini e i diritti di chi produce contenuti.

Il necessario intervento dei governi per regolare ChatGpt e la AI

Il controllore di OpenAI è di fatto Microsoft e il fondatore, Bill Gates, è in prima fila nel dare l’allarme. Microsoft da sempre è venditore di servizi e non raccoglitore di pubblicità. Per le autorità di governo e i parlamenti. Dovrebbe quindi essere più agevole che con Google o gli altri Ott stabilire regole protettive non solo del copyright ma delle stesse democrazie, chiaramente in pericolo secondo coloro, gli stessi protagonisti dell’evoluzione di AI, che hanno lanciato l’allarme. È di venerdì 29 lo stop imposto dal Garante italiano della privacy a ChatGpt per violazione delle norme a tutela dei dati personali. Vediamo se i politici questa volta saranno capaci di tempestività e profondità regolamentare.

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La riforma delle banche proposta da FdI? Antistorica e contro il risparmio degli italiani

Questo giornale si è per ora astenuto da giudizi drastici sull’operato del governo e della maggioranza che lo sostiene. In particolare abbiamo ritenuto che giudizi fondati su chi ha la responsabilità di governare non possano essere dati solo dopo pochi mesi di attività. Ma su una iniziativa legislativa del partito di maggioranza relativa, Fratelli d’Italia, che riteniamo quindi sia stata presa con il consenso del presidente del consiglio, Giorgia Meloni, non possiamo tacere. È la proposta di legge che ha come primo firmatario il capogruppo di FdI, Tommaso Foti, dal titolo «Modifica all’articolo 10 del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, in materia di separazione tra le banche commerciali e le banche d’affari».

Non senza una punta accentuata di demagogia, i deputati del partito del presidente Meloni sostengono che le banche italiane preferiscono effettuare operazioni di investimento a rischio dei capitali raccolti piuttosto che finanziare linearmente le aziende e i privati cittadini, aumentando in tal modo il rischio di solidità delle banche stesse.

Come nacque la separazione tra banche commerciali e di investimento nel 1936...

Per questo occorre ritornare alla normativa che fu varata nel 1936 auspice Donato Menichella, che diplomatosi ragioniere a Foggia era arrivato a capo dell’Iri, l’istituto per la ricostruzione. E da lì, giocoforza, fu decisivo nella legge appunto del 1936 che vietava alle banche italiane di possedere partecipazioni in aziende. Quella scelta era allora più che logica poiché dopo la crisi del 1929 era necessario ricostituire la certezza che le banche non sarebbero fallite perché le loro partecipate industriali andavano male.

Ma nel 1946, su indicazione di Luigi Einaudi, Menichella divenne prima direttore generale e poi governatore della Banca d’Italia, fino al 1960 quando lasciò il posto a Guido Carli, di cui era stato il maestro.

… E perché Carli e poi Ciampi nel 1993 vi posero fine

Se i deputati di FdI avessero avuto l’accortezza di rileggersi un po’ di storia avrebbero evitato un’iniziativa senza razionalità. Avrebbero infatti scoperto che c’era una continuità di pensiero fra colui che, forzatamente, decise di separare le banche dall’attività industriale, appunto Menichella, e il suo successore e allievo, Carli, che diventato ministro del tesoro nel 1989 firmo il trattato di Maastricht (e non esitò a confessare che gli tremava la mano), avviò il progetto delle privatizzazioni, chiamando alla direzione generale del Tesoro Mario Draghi, e ispirò quanto fu poi realizzato dal presidente del consiglio e suo allievo Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 e cioè la normalizzazione, rispetto a quello di tutti gli altri paesi europei, del sistema bancario italiano, finalmente abilitato a tornare a operare come la maggioranza delle banche del mondo, cioè non solo a fare credito ma a comprare e vendere anche partecipazioni. In più c’era la necessità di fare le privatizzazioni, di creare intermediari e fondi comuni…

La scelta di questa strada era stata appunto decisa dal ministro Carli, il quale si era domandato qual era il modello bancario prevalente nell’Europa del prossimo euro: il modello di banca universale, che univa la banca di credito con la banca d’affari. Il modello era sviluppato anche nel paese più importante della Ue, la Germania.

L’analisi di Carli era stata come al solito profonda. Anche negli Usa dopo la grande crisi era stato proibito alle banche di avere partecipazioni, ma da tempo era stata data di nuovo l’autorizzazione a svolgere tutte le attività bancarie, non solo i prestiti, e ciò aveva permesso alle economie dei paesi che avevano scelto il modello universale di sviluppare un reale mercato dei capitali. In Italia il mercato dei capitali poteva animarlo solo Mediobanca, fondata nel 1946, quando Raffaele Mattioli, insieme con Ugo La Malfa e Giovanni Malagodi comprese che non potendo avere partecipazioni la Comit, doveva almeno generare una banca che potesse supportare la reindustrializzazione del Paese. La privativa di Mediobanca durò troppo a lungo e meno male che Carli diede la spinta a cambiare. Questo ritardo è la causa della mancanza in Italia di un vero mercato borsistico, dato che Mediobanca si è fino a pochi anni fa dedicata a sostenere e assistere solo alcune grandi aziende familiari.

In Italia manca un vero mercato dei capitali

Il guaio non è che in Italia le banche svolgono troppa attività di investimenti, ma esattamente il contrario. Per cui oltre 1.700 miliardi di risparmio rimangano fermi sui conti correnti, negli italiani c’è la cultura dei titoli di stato ma non dell’investimento azionario. Si aggiunga poi che la Borsa prima è stata controllata dal London Stock Exchange, perché quando fu privatizzata e resa società per azioni le banche non ebbero lo slancio di acquistarne il controllo, e poi è finita sotto il controllo di Euronext, che ha al suo interno borse come quella di Amsterdam che per trattamento fiscale e diritto commerciale ha generato numerosi delisting da Piazza Affari.

Chi meglio delle banche oltre che dare finanziamenti può favorire la crescita di un mercato dei capitali, cioè di una borsa reale, portando migliaia di pmi a quotarsi in borsa?

Non capiscono i deputati di FdI che lo sviluppo del paese passa attraverso l’impiego del risparmio italiano in Italia per far crescere il sistema produttivo? E chi può accompagnare le pmi in borsa se non le banche che ne conoscono vita morte e miracoli per il credito che concedono?

Il 75% del risparmio degli italiani finanzia l’economia di altri paesi

Piuttosto la maggioranza in parlamento e il governo (in particolare il ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti) dovrebbero capire che il miglior investimento per il futuro del paese è far sì che anche in Italia si crei un mercato vero dei capitali, perché come è noto, senza capitali non si può fare sviluppo. Non è più scandaloso e deleterio che il 75% dei risparmi italiani vada a finanziare l’economia di altri paesi, piuttosto che le banche possano fare utili anche con attività da banca d’affari?

E perché questo avvenga, occorre un colpo deciso, che non ha niente a che vedere con il reddito di cittadinanza o i cattivi superbonus (perché con una legge giusta anche questi diventano buoni e utili): occorre che, per un periodo limitato ma significativo, ci sia uno sconto fiscale per chi si quota e per chi acquista azioni delle società che vanno in borsa.

Quando sono stati creati i Pir un uomo, un banchiere giusto e capace come Ennio Doris fu preso da entusiasmo: qualcosa i Pir hanno fatto ma non possono smuovere la montagna; c’è un solo provvedimento che può smuovere la montagna: per lo stato, dare uno sconto fiscale per un periodo limitato a chi si quota e a chi investe sarà il più formidabile strumento per creare sviluppo e quindi veder crescere gli introiti fiscali, anche perché una volta quotate le aziende saranno necessariamente più rispettose del fisco.

Quindi, invece di tornare indietro come avverrebbe con la separazione fra banca di credito e banca d’affari, che si metta mano a una grande valorizzazione delle pmi italiane.

E poi, comunque, nessuno impone alle banche di essere universali. Chi vuole può fare solo prestiti, ma impedire di fare anche la banca d’affari a tutti non solo è antistorico, e non solo perché la decisione della banca universale fu presa dal più grande banchiere centrale che l’Italia abbia avuto, ma perché abbiamo il più grande risparmio dopo il Giappone che deve andare ad alimentare lo sviluppo, per avere finalmente una vera borsa con centinaia e migliaia di società quotate. Lo sviluppo, unico antidoto reale, oltre a un primo taglio secco, per riportare il debito italiano entro parametri di sicurezza rispetto all’Europa. (riproduzione riservata)