C'era una volta la rivalità accesa tra Turchia ed Emirati Arabi Uniti. Dalla Libia al Corno d’Africa, Ankara e Abu Dhabi si sono trovate sempre schierate su fronti opposti. Ora sembra essersi aperta una fase di distensione. Il Paese del Golfo ha comunicato l’istituzione di un fondo da 10 miliardi di dollari per sostenere gli investimenti in Turchia. La decisione è stata presa all'indomani della visita ad Ankara del principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, la prima dopo 10 anni segnati da tensioni nella regione. L'iniziativa mira a "sostenere l'economia turca e a rafforzare la cooperazione bilaterale tra i due Paesi" e si concentrerà su "investimenti strategici", in particolare nei settori dell'energia e della salute.
L'annuncio del nuovo fondo arriva nel pieno della crisi della lira. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, sta ignorando gli appelli, anche all’interno del suo governo, di mettere fine all’esperimento di politica monetaria che sta abbattendo la valuta emergente. Due persone che hanno familiarità con le discussioni interne hanno affermato che alcuni funzionari dell’esecutivo avrebbero manifestato senza successo al "sultano" il loro disagio verso la strategia poco ortodossa di ridurre i tassi d’interesse (ora al 15%, -400 punti base da settembre) per frenare l’inflazione che corre vicino al 20%. Un ulteriore taglio sarebbe previsto il prossimo mese.
Altre persone avrebbero addirittura rinunciato a esprimere la loro contrarietà, anche perché il rischio è quello di essere silurati. Questo muro potrebbe preannunciare una resa dei conti sempre più intensa tra investitori e risparmiatori locali innervositi da una parte ed Erdogan dall'altra. Le perdite accumulate dalla lira stanno colpendo i bilanci e i piani futuri delle famiglie turche. Oggi il cambio dollaro-lira è a 11,956 (-1,07%), mentre il cross con l’euro è a 13,415 (-0,86%).
Gli economisti ritengono che, se Erdogan non consentirà alla Banca centrale di aumentare i tassi, contenendo il deprezzamento della lira, il Paese dovrà affrontare un carovita alle stelle e possibili insolvenze aziendali o bancarie. Ai tempi della crisi valutaria del 2018, l’istituto attuò la stretta, anche se in ritardo, per arginare l’"emorragia". Oggi, invece, le prospettive di un intervento rapido sono poche. Secondo Murat Unur, analista di Goldman Sachs, il rischio di dollarizzazione rimane "molto elevato", data la fretta di acquistare valute forti, che già rappresentano più della metà dei depositi turchi.
"L'attuale mix di politiche macroeconomiche non è sostenibile, ma le autorità hanno chiaramente dimostrato di preferire tassi bassi e sono disposte ad applicarli anche se questo porta a una pressione significativa sulla lira", ha dichiarato Unur. E anche se la domanda dovesse trarre benefici dal minore costo del denaro, questi si rivelerebbero solo di breve termine se viene ignorata l’inflazione, ha spiegato Selva Demiralp, ex economista della Federal Reserve.
La Banca centrale, già priva di credibilità, ha dichiarato martedì che interverrebbe solo in momenti di "eccessiva volatilità". Gli analisti affermano che potrebbero essere raddoppiati gli sforzi per assicurarsi linee di swap in valuta estera dagli alleati, dato che le riserve ufficiali rimangono scarse. I regolatori potrebbero anche imporre alcune restrizioni alle società e alle persone locali sull’acquisto di dollari, euro e oro per rallentare il crollo della lira. (riproduzione riservata)