La legge di Roma padrona
La legge di Roma padrona
Il premier ora ha poteri enormi e senza precedenti su imprese, banche, famiglie e Borsa spa. Ma gli spiriti animali del mercato sono più veloci della burocrazia, dicono i super-manager. Sarà... però un codicillo di Conte offre a Nagel un asso anti-scalate ostili

di Roberto Sommella 06/06/2020 02:00

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Roma, marzo 2012, interno giorno. A Villa Huffer si incontrano il governatore Ignazio Visco, il direttore generale della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni, il premier Mario Monti, il viceministro all’Economia Vittorio Grilli e il presidente della Bce Mario Draghi. L’idea del team italiano è creare uno scudo anti-spread per mettere al riparo i bond sovrani dalla speculazione in cambio di riforme. Il numero uno dell’Eurotower, secondo la ricostruzione del libro di Marco Cecchini L’enigma Draghi, ascolta, ma boccia l’idea come prematura: «I giuristi tedeschi si opporrebbero». E, a vedere quello che hanno scritto più tardi le toghe rosse di Karlsruhe, mostra di conoscere bene la Germania, non ancora pronta per un passo del genere. Poi arrivano in estate il Whatever it takes e successivamente il Quantitative Easing, ma a trazione europea, made in Francoforte. L’episodio racconta di un tentativo di far nascere uno scudo pensato in Italia per mettere a riparo l’Unione e un intero Paese fiaccato dalla recessione e dalle divisioni politiche successive alla caduta del governo Berlusconi. Un super-potere che Palazzo Chigi e Via Nazionale non riuscirono ad azionare subito.

 
Otto anni più tardi una misura del genere quasi impallidisce a confronto dei poteri che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è riuscito in questa fase di emergenza a ricondurre sotto la sua sfera d’influenza. Il numero uno dell’esecutivo a colpi di decreti e provvedimenti d’urgenza decide tramite la garanzia Sace sulla liquidità delle grandi aziende, da Fca in giù, assicura prestiti e fondo perduto a famiglie e imprese (che faticano ad arrivare per la terribile burocrazia che attanaglia ogni procedura), stende lo scudo pubblico golden power su Mediobanca e Borsa spa, istituisce un nuovo organismo in stile Iri da una costola di Cdp dotandolo di 40 miliardi di euro, prescrive a bilancio fondi per milioni di persone in cassa integrazione. Una situazione mai vista. Nemmeno negli anni ‘90, quando la Lega gridava «Roma ladrona». La capitale oggi, nell’era post Covid, sembra invece diventata padrona della situazione, a dispetto degli spiriti del mercato che hanno rialzato la testa a Piazza Affari. Ma è davvero così?

 
Esterno giorno, giugno 2020, quartiere Prati di Roma. Dall’altra parte del tavolo, a debita distanza, siede Fabiano Fabiani, già storico numero uno di Finmeccanica. Che esordisce gelando il sangue del suo interlocutore. «Non è come il 1992; nulla è paragonobaile al 2020...». Nemmeno lo Stato ovunque può servire, nemmeno un nuovo Iri? La risposta è netta. «Non credo che il nuovo fondo Cdp sia paragonabile all’Iri. L’Iri aveva un’esperienza nei grandi gruppi, è dunque improprio richiamarlo. Adesso il tessuto connettivo dell’Italia è fatto di pmi; la situazione è quindi completamente diversa rispetto all’epoca delle partecipazioni statali», pesa le parole Fabiani, che alla sua maniera va comunque giù dritto. «Le pmi hanno bisogno di capitali e non di un nuovo Iri, perché la gestione va lasciata a chi ha creato queste aziende. Un eventuale intervento pubblico si deve perciò porre in un’ottica completamente diversa rispetto agli anni ’40 e ’50. Il disastro economico che vivremo è in effetti paragonabile al Dopoguerra; ci aspetta un mondo nuovo, diverso, due mesi di inattività pesano, per un’azienda è un danno enorme, alle viste c’è una fase molto dura. Dobbiamo prepararci a interventi non di gestione ma di sostegno». Il volto è preoccupato ancor di più di quando il governo Amato sul ciglio del burrone varò una manovra da 93.000 miliardi di vecchie lire privatizzando le banche e trasformando in spa gli enti pubblici.

 
Che nulla sia paroganibile a questo anno di pandemia è convinto anche un altro pezzo da novanta come Franco Bernabè. Nel suo curriculum sterminato (cui ora si aggiungerà un volume in uscita sul capitalismo) figurano Eni, Telecom Italia, incarichi pubblici e privati. E soprattutto grande conoscenza della società che ribolle. «C’è una profonda differenza tra le partecipazioni statali di un tempo, con regole precise, uomini e altro, e questo sistema di oggi, dove al potere sembra ci sia la fantasia». Le regole eccezionali vanno bene e in alcuni casi sono state necessarie, vista la pandemia e gli effetti economici del lockdown, «ma proprio per questo non può durare in eterno», ragiona al telefono il manager di Vipiteno. Come lui, in tanti hanno perplessità sul metodo commissariale che è stato portato avanti del governo giallorosso, come anche sul ponte di Genova («ci saranno una marea di ricorsi»), perché, passata l’emergenza lo Stato padrone e i suoi amministratori dovranno dar conto delle loro azioni di fronte a Corte dei Conti e magistratura.

Uno scenario da brividi, se non fosse per il momento lontano. Nessuno contesta la scelta di dotare di super-poteri chi siede a Palazzo Chigi, anche se Fabiani fa notare che «nemmeno un uomo decisionista come Craxi usò i Dpcm».

Poi però c’è l’esigenza di governare, in pace come in guerra. Ed è tutta un’altra cosa. Giulio Tremonti, più volte potentissimo ministro dell’Economia e uno dei pochi ad avvisare per tempo dell’arrivo di un cigno nero, risponde con grande pragmatismo: ‘‘ora che siamo nel pieno del casino mi preoccuperei di risolvere il casino e non di cosa fare dopo. Ricordo che nel 2008, in un solo giorno, la mano invisibile della finanza fu sostituita da quella visibile dello Stato quando furono nazionalizzate le banche. In tempi normali come in tempi eccezionali vale sempre l’adagio: il mercato dove possibile, lo Stato dove necessario». E in Tremonti scorrono anni di esperienza sul campo quando dice, a ragion veduta, che «le misure messe in piedi dal governo sono compatibili con le regole europee che hanno sospeso il divieto di aiuti di Stato». Per il professore «il momento è tragico e non è il caso di lasciarsi andare a considerazioni dogmatiche» e nella frase c’è tutta l’esperienza di un uomo di governo che ha vissuto il 2008 e il 2011, dove c’era ben poco da filosofeggiare.

A far riflettere tutti non è poi l’atteggiamento di Confindustria e del suo presidente Carlo Bonomi, cioè di chi dovrebbe avversare l’intrusione pubblica, quanto l’idea un po’ bislacca del Movimento 5 Stelle di creare una banca pubblica, apoteosi dell’iper- statalismo. «Non credo che possa servire una banca pubblica per agevolare il credito e l’accesso alla liquidità da parte delle imprese. Le difficoltà di erogazione delle banche derivano dai passaggi burocratici e dalla stratificazione delle leggi esistenti. E’ un’idea ingenua, per avere magari qualche posto in più da spartirsi», rincara ancora Fabiano Fabiani.

E non è tenero con l’idea dello Stato padrone nemmeno Flavio Cattaneo, uno che ha lavorato in Rai come in Terna e Telecom. «Lo Stato non batterà mai il mercato perché lo Stato è zoppo e il mercato corre veloce», afferma il manager di Ntv. «Alla fine vince sempre il mercato perché, se il governo gli blocca la strada, lui ne trova un’altra, se lo Stato fissa a 10 il suo intervento, gli spiriti della finanza trovano il modo di entrare a 9,90. Come nel proibizionismo». E poi non si può pretendere di prendere in mano la gestione di un’azienda come se ci fosse ancora la Gepi. «Ci sono imprenditori pronti a investire», aggiunge Cattaneo, pensando a sé e ad altri, «ma non vogliono farsi dettare i nomi per i cda dal politico di turno».

Sarà. Insomma, lo Stato non piace perché il suo potere è effimero. Poi casca l’occhio sulla lettera b) dell’articolo 4 bis comma 3-bis del decreto legge 105/2019 «come modificato dall’art.15 del dl 23/2020». Che cosa dice? Sulla carta nulla, nella realtà è una bomba, che forse da questo momento sa anche Alberto Nagel, impegnato a contrastare la scalata di Leonardo Del Vecchio a Mediobanca: Piazzetta Cuccia può notificare in via cautelativa e difensiva ogni acquisto proveniente da un soggetto lussemburghese. A chi? Ma a Palazzo Chigi, ovviamente. A Roma la legge ormai è tra le righe e il potere si annida nel non detto. Ci si rivede sul ring di borsa, il gong però non lo suonano a Milano. (riproduzione riservata)