Se ci si limita ai mass media, non si trovano molti dissidenti rispetto alla visione binaria dei primi cento giorni del secondo mandato del presidente Trump.
Il suo inizio iperattivo è considerato o una revisione necessaria e dolorosa del corrotto quadro istituzionale americano, una rivoluzione contro un establishment fallito, oppure la più minacciosa usurpazione del potere esecutivo nella storia della repubblica, fatto di una serie di passi da gigante diretti verso una completa presa di potere autoritaria.
Ma mi chiedo se non stia emergendo l’opinione di un crescente numero di persone per le quali la questione più importante non è se il loro presidente sia un salvatore o un tiranno, ma se quest'uomo e questa squadra siano davvero in grado di portare a termine un progetto così audace e ambizioso, qualunque ne sia l'intento. La domanda importante potrebbe non essere se siano incoraggianti redentori o profondamente malvagi, ma se siano semplicemente incapaci.
Certo, il grande compito che si sono prefissati, rifondare l'ordine americano e globale degli ultimi decenni, sarebbe stato arduo anche per un gruppo di uomini forti e brillanti con il genio politico di Machiavelli e l'efficienza spietata dell'Inquisizione spagnola.
Gli obiettivi principali immediati di Trump erano lodevoli e godevano di ampio consenso: chiudere le frontiere porose, ridimensionare un’amministrazione obesa, porre fine alla follia woke che ha tenuto in ostaggio gran parte del nostro establishment, ripristinare la forza americana nel mondo.
Ma identificare gli obiettivi è la parte facile. Raggiungerli è tutta un'altra cosa. Questo esercizio richiede battaglie vittoriose contro interessi potenti e radicati in un Paese e in un mondo diversificati e pluralisti.
Nella sua guerra su più fronti durata cento giorni, il team di Trump ha affrontato, senza un ordine particolare, i tribunali, le principali università, la maggior parte dei media, gran parte della professione legale, i mercati obbligazionari, i mercati valutari, i mercati azionari, la seconda economia mondiale e la seconda forza geopolitica più potente, il sistema globale di alleanze e il sistema economico globale.
La teoria alla base dell'approccio guerra-lampo è che la sua audacia è la principale garanzia di successo: invadendo la zona, si mantengono i nemici in disequilibrio e disorientati dalla pura energia, demoralizzati dalla pura ambizione. Ma bisogna agire. Si stanno accumulando prove per cui questa sembra meno una guerra lampo e più una strafalcionia.
Il Dipartimento per l'Efficienza Governativa (Doge), come molti di noi sospettavano, ha partorito un topolino dalla montagna di spesa pubblica degli Stati Uniti da tagliare. Lo sforzo di rilanciare l'industria manifatturiera americana sta danneggiando l'industria manifatturiera americana. Cambiare le regole dell'economia internazionale si è rivelato difficile: stiamo ancora aspettando anche solo uno di quei tanto decantati accordi commerciali con i supplicanti paesi stranieri. La fine della guerra in Ucraina non è arrivata, ma siamo riusciti ad alienarci praticamente tutti i partner che avevamo. Forse ci stiamo almeno avvicinando a una nuova audace strategia nei confronti dell'Iran, ma sembra essere una rivisitazione della fallimentare strategia di Barack Obama. Non solo non ci sono prove che la Cina sia stata intimidita da tutto questo, ma sembra anche che la Repubblica Popolare di Harvard ora creda nelle sue possibilità contro il governo federale, aiutata dalla notizia che un'amministrazione maldestra ha accidentalmente premuto il tasto invia.
A onor del vero, il restrizionismo in materia di immigrazione è stato un grande successo. A molti di noi potrebbe non piacere il prezzo pagato in termini di cavilli legali e di un pugno di ferro di dubbia necessità, e l'amministrazione potrebbe ancora dover scegliere tra una crisi costituzionale vera e propria e l'immagine di debolezza data se dovesse cedere ai tribunali sui suoi sforzi di espulsione. Ma gli sforzi delle forze dell'ordine e il messaggio inviato a chi viola le leggi sull'immigrazione hanno cominciato a compensare i danni causati da anni di frontiere aperte.
Ma altrove l'impressione è quella di un fallimento crescente accompagnato da un'escalation di eccessi. Nelle prime settimane, la differenza più evidente tra la seconda e la prima amministrazione Trump era l'unità di intenti, l'assenza di dissensi interni e l'accento posto sull'esecuzione. Ma la settimana scorsa due notizie hanno attirato la mia attenzione, offrendo un quadro più familiare di indisciplina e disordine.
In primo luogo, abbiamo appreso dal Journal delle misure bizzarre adottate dai consiglieri economici del presidente per convincere Trump a sospendere il suo distruttivo piano iniziale di dazi globali, e di come abbiano dovuto assicurarsi che Peter Navarro (nella foto con Trump), sostenitore dei dazi, fosse lontano dal presidente per convincerlo a rilasciare una dichiarazione che rivedeva il piano.
Poi c'è stata la notizia dell'intensificarsi delle lotte interne al Pentagono con l'estromissione di tre collaboratori del segretario alla Difesa Pete Hegseth. Questi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui affermano di essere stati vittime di “attacchi infondati” da parte dei colleghi.
Non metto in dubbio la serietà delle intenzioni con cui l'amministrazione Trump sta cercando di rimodellare il panorama politico e culturale. Né disprezzo i timori di coloro che sostengono che l'interpretazione espansiva dei poteri esecutivi da parte dell'amministrazione rappresenta una minaccia all'ordine costituzionale.
Il problema che vedo è che, anche quando l’Amministrazione supera i limiti, sembra sprofondare ancora di più nel fango. Il rischio maggiore potrebbe essere che gli elettori comincino a chiedersi: a che serve un uomo forte che non sa fare nulla per bene?