Alla ricerca di fondi a copertura della manovra finanziaria, il governo sta lavorando al raddoppio della Tobin Tax. Un’imposizione fiscale che i mercati non amano. Introdotta nel 2013 dal governo Monti, colpisce le società con sede legale in Italia che hanno un valore a partire da 500 milioni di euro e viene applicata in capo ai soggetti che acquistano quote di queste imprese indipendentemente dalla loro nazionalità.
La proposta attuale prevede di portare dallo 0,1% allo 0,2% l’aliquota per le società quotate sui mercati regolamentati e dallo 0,2% allo 0,4% per quelle nei mercati non regolamentati, dallo 0,02% allo 0,04% l’imposizione sulle negoziazioni ad alta frequenza. Vengono invece escluse le operazioni a mercato che si aprono e chiudono in giornata. Nel gruppo delle società non regolamentate rientrano tutte le aziende non quotate in borsa e in teoria anche le piccole e medie imprese scambiate sul segmento Egm di Piazza Affari, che però sono di solito troppo ridotte di dimensioni per toccare i 500 milioni di capitalizzazione. Società come Brembo, che hanno trasferito la sede legale ad Amsterdam, non sono toccate dalla Tobin.
Anche fondi comuni ed Etf devono pagare l’imposta se acquistano titoli a larga capitalizzazione di Piazza Affari. Non nel caso di Etf sintetici, ovvero di veicoli che hanno come sottostante un derivato sul Ftse Mib ma non concretamente le azioni dell’indice. Inoltre sono esenti fin dal 2013 i fondi etici.
E’ facile per il governo riscuotere la Tobin, perché viene applicata da banche e notai al momento delle transazioni, ma non è così scontato l’ammontare dell’incasso, come insegna la storia. Nel 2013, infatti, l’allora esecutivo tecnico guidato da Mario Monti si aspettava un miliardo l’anno da questa tassa. Ambromobiliare è andata a fare due calcoli scoprendo che l’incasso massimo è stato registrato nel 2024 con 546 milioni di euro. Nel frattempo gli scambi a Piazza Affari sono scesi del 40% circa mentre sono rimasti stabili in Paesi dove non esiste la Tobin come Svizzera, Regno Unito e nell'area del Nord Europa. Un governo come quello attuale con la premier Giorgia Meloni che sta lavorando da tempo per far crescere Piazza Affari aumentando la liquidità e incentivando le quotazioni si trova ora davanti al rischio che la stessa liquidità, legata agli scambi, freni ulteriormente. Un tema rilevante che può andare a toccare proprio le società partecipate dallo Stato, blue chip da oltre 500 milioni di capitalizzazione come Enel, Eni, Poste, Tim, Leonardo e Fincantieri, che così rischiano di essere snobbate dai grandi investitori esteri. Attirati questi ultimi a investire nelle imprese tedesche quotate a Francoforte, tanto più che la Germania dovrebbe mettere a terra un maxi piano di investimenti nel 2026. L’Italia rischia di scivolare in basso sul tema competitività.
Scuote la testa Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi e docente universitario: «non va bene con interventi dell'ultimo minuto prelevare gettito colpendo gli investimenti di lungo periodo. Il private equity ne sarebbe penalizzato su operazioni che hanno un peso importante nel nostro mercato in chiave di sviluppo del sistema industriale».
Oltre a calcolare il mancato gettito fiscale sulla Tobin 1, Ambromobiliare ha poi cercato di capire quanto avrebbe potuto incassare lo Stato dal 2013 ad oggi se non fosse esistita la norma. E ha calcolato che lo Stato avrebbe incassato il doppio senza tassa, 1 miliardo l’anno. «L’aumento del 400% della Tobin Tax rappresenta un serio rischio per la competitività e lo sviluppo del mercato azionario italiano», interviene Alberto Franceschini Weiss, presidente del consiglio di amministrazione di Ambromobiliare. «Le analisi condotte dal nostro ufficio studi evidenziano una correlazione significativa tra l’introduzione dell’imposta nel 2013 e la contrazione di oltre il 40% dei volumi di scambio alla borsa di Milano: dai più di 1.000 miliardi del 2013 ai 665 miliardi del 2024. Peraltro, a fronte di un gettito stimato dal governo Monti di circa 1 miliardo di euro, l’incasso effettivo si è stabilizzato negli anni intorno ai 450 milioni». Il confronto poi con gli altri mercati europei privi di Tobin Tax fornisce alcune conferme: «Milano è l’unica piazza ad aver registrato una perdita così marcata dei volumi, nonostante l’espansione del risparmio gestito e l’aumento della capitalizzazione complessiva», ragiona l’esperto.
Secondo l’ipotesi proposta da Ambromobiliare, il calo degli scambi ha generato un mancato gettito rilevante in termini di Irpef e Ires riconducibile al settore dell’intermediazione finanziaria e del risparmio gestito. Si tratta di un comparto, riprende Franceschini, «che vive della borsa di Milano e che, includendo l’indotto, ha prodotto negli ultimi anni oltre 24 miliardi di fatturato annuo, circa 20 miliardi di valore aggiunto e più di 5 miliardi di gettito fiscale complessivo. I minori volumi di borsa hanno ridotto il business complessivo degli intermediari e dei gestori, il cui effetto è un risultato negativo per l’erario, al netto dell’incasso della Tobin Tax, superiore al mezzo miliardo di euro annuo». Cifra destinata a salire con il raddoppio della tassa dal 2026. Un ulteriore incremento dell’aliquota «amplificherebbe la contrazione dei volumi, con il rischio concreto di marginalizzare definitivamente la piazza milanese proprio nel momento in cui il governo sta cercando di rilanciarla», sottolinea Franceschini.
In questo scenario, per molte società a media e grande capitalizzazione sarebbe «chiaramente conveniente trasferire la sede legale in altri Paesi europei, come i Paesi Bassi, pur mantenendo quella fiscale in Italia, per evitare che i propri azionisti siano penalizzati da un’imposta tanto distorsiva. E con un ulteriore indebolimento del settore dei servizi finanziari a favore degli operatori delle altre piazze europee».
Davide Massiglia, commercialista e Counsel di Advant Nctm, nota che «l’impatto della misura sarebbe molto differenziato. Per gli investitori retail, tradizionalmente più reattivi all’aumento dei costi operativi, il raddoppio dell’aliquota potrebbe incidere sulle strategie ad alta rotazione e sulla convenienza degli acquisti ricorrenti o frazionati». Per gli investitori meno dinamici, invece, l’effetto resterebbe «contenuto, ma comunque percepibile nel caso di investimenti periodici». In questo senso rischiano di essere colpiti i Pac, la modalità di acquisto ricorrente, spesso su base mensile, di titoli azionari per esempio.
Ben più rilevante sarebbe invece l’impatto, riprende poi Massiglia, sugli investitori istituzionali (italiani ed esteri) e sulle relative strategie «per le quali l’incremento dei costi marginali per transazione rappresenta un fattore distorsivo importante. Un aumento dell’imposta potrebbe ridurre la liquidità complessiva del mercato domestico e favorire un progressivo spostamento dell’operatività verso strumenti e piazze non soggetti al prelievo» come per esempio l’Olanda.
Dovrebbe invece essere limitato l’impatto per i soggetti che operano attraverso strutture di investimento estere come per esempio holding, nota l’esperto. Effetti rilevanti emergerebbero «solo nel caso in cui i veicoli effettuassero acquisti diretti di titoli italiani soggetti all’imposta, ipotesi che nelle architetture patrimoniali degli high-net-worth individual tende a essere marginale».
Nel complesso, il raddoppio dell’imposta appare una soluzione «meno controversa rispetto all’aumento della tassazione sui rendimenti, ma presenta comunque effetti selettivi», ragiona il fiscalista. Ovvero «maggiore onerosità per l’operatività di mercato, impatto ridotto sulle strutture più evolute e potenziali riflessi sulla competitività e sulla liquidità di Borsa Italiana, oltre che un aumento dei costi nelle operazioni di private market sulle Spa italiane». (riproduzione riservata)