«La Nato chiede 30 giorni di magazzino di armi per essere pronti alla guerra». Ercolani (Rheinmetall): serve più cooperazione in Ue
«La Nato chiede 30 giorni di magazzino di armi per essere pronti alla guerra». Ercolani (Rheinmetall): serve più cooperazione in Ue
L’ad di Rheinmetall Italia in audizione in commissione Difesa della Camera propone maggiore sinergia tra Stato, industria e militari per accelerare i processi decisionali. «Utili i politici nei cda delle società della difesa, in Germania ci sono». L’Europa ha colmato il divario nella produzione di munizioni, ma la vera sfida è mantenere il passo con la tecnologia

di Anna Di Rocco 10/12/2025 10:23

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L’Europa ha chiuso il gap sulla produzione di munizioni, ma la vera sfida oggi riguarda il ritmo tecnologico della guerra e la capacità dei governi di sostenere l’industria. È il messaggio lanciato dall’amministratore delegato di Rheinmetall Italia, Alessandro Ercolani, durante l’audizione in commissione Difesa alla Camera, una seduta che ha offerto uno spaccato raro del rapporto - ancora incompiuto - tra le forze armate, la politica e i campioni industriali nazionali.

Ercolani ha ricostruito l’evoluzione della produzione occidentale di munizioni da 155 mm, quelle maggiormente impiegate nel conflitto ucraino. Nel 2022 Stati Uniti ed Europa insieme producevano 500 mila colpi l’anno: un quantitativo insufficiente considerando che, il primo anno di guerra, ne furono impiegati un milione. «Oggi l’Europa è passata a una capacità di circa 1,5 milioni di colpi», ha spiegato, ricordando come Germania, Francia, Repubblica Ceca e Italia abbiano incrementato rapidamente le linee.

Ma il punto decisivo non è più solo la produzione. Perché c’è una guerra alle porte dell’Europa che potrebbe, un giorno, non riguardare solo l’Ucraina. «La Nato sta chiedendo che gli equipaggiamenti strategici equivalgano a 30 giorni di magazzino, per essere pronti nel caso in cui dovesse scoppiare un conflitto» ha sottolineato il manager. Significa che ogni Paese dovrà accumulare scorte sufficienti a sostenere un mese di conflitto ad alta intensità senza dipendere dai tempi dell’industria. È un cambio di paradigma rispetto alla stagione del just-in-time, che lo stesso Ercolani ha definito superata: «Oggi le aziende della difesa lavorano con magazzini pari al 30-40% del fatturato, proprio per garantire resilienza». 

La guerra tecnologica e la filiera che cambia ogni due mesi

Ma se sul fronte convenzionale l’Italia «è pronta», secondo Ercolani, la vera criticità è la guerra tecnologica, quella multidominio: sciami di droni, sistemi filoguidati, piattaforme con AI integrata e capacità di riconoscimento autonoma del terreno, oltre all’intelligence multisorgente e all’uso combinato di satelliti, velivoli e sensori. Tecnologie che «si aggiornano ogni 2-3 mesi» e che nessun sistema di procurement tradizionale può inseguire.

Ercolani ha così trovato modo di citare i casi americani Anduril e Palantir o la tedesca Helsing, cresciute proprio grazie alla rapidità con cui sviluppano e validano soluzioni direttamente per il teatro operativo, senza passare per le certificazioni standard pensate per i tempi di pace.

Se la politica avesse un posto nei cda delle industrie strategiche

C’è quindi anche un nodo politico. Il ceo di Rheinmetall Italia, pur riconoscendo gli sforzi portati avanti dal ministero della Difesa, ha descritto l’attuale filiera decisionale (requisito, esigenza operativa, budgeting ministeriale, passaggio parlamentare, Corte dei Conti, procurement) come «un ciclo da tre-quattro anni», poco compatibile con le dinamiche dei conflitti attuali.

Serve quindi una svolta: «Senza una sinergia seria tra Stato, industria e apparato militare è impossibile semplificare il processo», ha detto Ercolani. E ha aggiunto un passaggio: in molti Paesi, compresi Stati Uniti e Germania, «la politica siede nei consigli di amministrazione delle industrie strategiche», non come forma di interferenza, ma come strumento di coordinamento e allineamento sugli obiettivi nazionali. In Italia, ha osservato, un modello del genere verrebbe percepito come «scandalo», mentre rappresenterebbe un fattore di efficienza.

Serve cooperazione tra aziende: le europee crescono più rapidamente delle americane

L’ad ha infine ricordato che i piani di investimento globali in intelligenza artificiale – «gli Usa e la Cina parlano di mille miliardi» – richiedono scale che i singoli Paesi europei non possono sostenere. Per questo la cooperazione continentale è anche un fattore economico: negli ultimi dieci anni, ha spiegato, il rapporto di capitalizzazione tra i tre big americani e i tre principali gruppi europei (Leonardo, Thales, Rheinmetall) si è ridotto da 1 a 8 del 2015 (con le aziende a stelle strisce otto volte più grandi di quelle europee) a 1 a 2 di oggi, segno che il mercato crede nella capacità dell’industria europea di colmare il divario tecnologico.

«L’Italia», ha ribadito, «sta seguendo una traiettoria promettente», ma ora deve attrezzarsi per produrre e aggiornare migliaia di droni, sviluppare capacità satellitari proprie e sostenere una governance in grado di accorciare i tempi tra esigenza operativa e disponibilità dell’equipaggiamento. Soprattutto, ha esortato, «bisogna guardare alla cooperazione come elemento di protezione, perché nessuno può farcela da solo». (riproduzione riservata)