Un gruppo di banche guidato da JPMorgan Chase, Bank of America, Goldman Sachs e Citigroup sta lavorando a un prestito da 20 miliardi di dollari per sostenere l’Argentina, nell’ambito di un pacchetto complessivo da 40 miliardi promosso dall’amministrazione Trump per aiutare il governo del libertario di Javier Milei.
L’altra metà del piano consiste in uno swap valutario (un accordo per scambiarsi valute per un determinato periodo di tempo, a un tasso di cambio prefissato) di pari importo tra il Dipartimento del Tesoro Usa e la Banca centrale argentina, destinato a rafforzare le riserve in valuta estera di Buenos Aires.
Le banche coinvolte stanno cercando una forma di copertura o garanzia per assicurarsi il rimborso dei fondi e attendono indicazioni da Washington su quali strumenti l’Argentina possa offrire o se il Tesoro statunitense sia disposto a intervenire direttamente. L’operazione non è ancora stata definita e potrebbe essere sospesa, se la questione delle garanzie collaterali non verrà risolta.
Un portavoce del Tesoro ha confermato che «le discussioni sono ancora in corso» e che ulteriori dettagli saranno resi noti solo al termine dei negoziati.
Le grandi banche statunitensi da anni non concedono prestiti diretti all’Argentina, esclusa dai mercati internazionali dopo una lunga serie di default (nove nella storia, tre dal 2000) e ancora oggi gravata da squilibri di bilancio e inflazione galoppante.
Per decenni i governi argentini hanno finanziato la spesa pubblica stampando moneta o accumulando debiti in dollari, senza riuscire a stabilizzare l’economia.
Lo swap valutario da 20 miliardi non prevede garanzie immediate da parte di Buenos Aires, ma comporta rischi elevati per Washington: il peso argentino si è svalutato del 30% dall’inizio dell’anno e potrebbe indebolirsi ulteriormente se, come chiede il Fondo Monetario Internazionale, il governo lasciasse fluttuare liberamente la valuta. «I rischi di queste operazioni sono insolitamente elevati», ha dichiarato Brad Setser, ex funzionario del Tesoro Usa. «Se il peso dovesse svalutarsi, il Tesoro si ritroverebbe con attività che hanno perso valore».
Il piano americano rischia di creare frizioni con il Fondo Monetario Internazionale, a cui l’Argentina deve quasi 60 miliardi di dollari, più di qualsiasi altro Paese.
Durante le riunioni a Washington, alcuni funzionari del Fondo hanno espresso timori che l’amministrazione Trump possa spingere Buenos Aires a privilegiare i debiti con gli Stati Uniti rispetto a quelli con il Fmi.
Un portavoce ha però assicurato che il Fmi: «continuerà a sostenere l’Argentina nel ripristinare la stabilità economica, lavorando fianco a fianco con le autorità argentine e il Tesoro Usa».
Lo swap sarà finanziato in gran parte attraverso l’Exchange Stabilization Fund, il fondo d’emergenza del Tesoro utilizzato in passato per interventi simili.
L’ultimo caso di rilievo risale al 1995, quando l’amministrazione Clinton concesse al Messico un prestito da 20 miliardi di dollari garantito dalle esportazioni petrolifere, durante la crisi del tequila.
Lunedì 20 ottobre la Banca centrale argentina ha confermato di aver raggiunto un’intesa preliminare con il Tesoro Usa, senza rivelarne i dettagli: il peso ha reagito inizialmente con un rimbalzo, salvo poi tornare a indebolirsi nel corso della giornata. (riproduzione riservata)