Nelle strategie di investimento alti rendimenti implicano rischi elevati, soprattutto quando i titoli azionari hanno già corso tanto. È il caso delle azioni aurifere, che da inizio anno, prendendo come riferimento l’indice Arca Gold Miners, hanno guadagnato il 114% quasi il triplo del metallo giallo (+43%). Per quale ragione? banche centrali e investitori istituzionali stanno tornando sull’oro come hedge geopolitico, ma per chi gestisce portafogli azionari i minerari rappresentano l’unico canale equity per monetizzare questo trend, creando un afflusso strutturale di capitali nel settore, che ne può prolungare la sovraperformance. Detto questo, secondo Carlo De Luca, responsabile asset management di Gamma Capital Markets, non bisogna dimenticare i rischi, che non sono tanto di un crollo del metallo prezioso – che al momento non vede all’orizzonte – quanto legati alla tentazione dei gruppi auriferi di tornare a un’attività di m&a aggressiva, come accadde nel 2012–2013, con acquisizioni costose che distrussero valore.
La selezione delle società su cui puntare è d’obbligo, studiando caso per caso il potenziale di rialzo che possono ancora esprimere. Proprio partendo dai fondamentali, spiccano cinque nomi: Barrick, Agnico Eagle, AngloGold, Gold Fields e Newmont. A questo proposito gli analisti di Rbc Capital Markets sono ottimisti sulle azioni Barrick, a cui attribuiscono un prezzo obiettivo di 38 dollari. Nonostante la sovraperformance relativa, continuano a essere scambiate con uno sconto maggiore rispetto ai concorrenti. E sebbene trattino a premio rispetto «alla valutazione degli ultimi 12 mesi, questo aspetto diventa meno rilevante, date le recenti notizie sul sito Fourmile in Nevada (uno dei più grandi al mondo) e una riduzione di valore prima attribuibile alla sospensione della miniera nel Mali, che rappresentava un'eccedenza».
Un altro titolo che, a loro parere, merita di più è il colosso Newmont, che può salire fino a 95 dollari (dagli 83,5 attuali). La distinzione più importante da fare nel settore, secondo De Luca, è però tra chi riesce a trasformare il prezzo dell’oro in free cash flow sostenibile e chi invece dipende troppo da un singolo progetto o da una giurisdizione complessa. Sul lato positivo mette in evidenza un big come Agnico Eagle, che è anche una delle poche major con costi stabili e visibilità di lungo termine. Il suo punto di forza? «Non ha progetti con esecuzione ancora incerta come tante altre aziende del comparto, e distribuisce ritorni consistenti agli azionisti» dice il gestore.
Poi ci sono AngloGold e Gold Fields: hanno più rischio operativo, ma in uno scenario con il prezzo dell’oro oltre 3.000 dollari l’oncia possono esprimere una performance superiore. Gold Fields, per esempio, ha Salares Norte, progetto minerario nell'Atacama in Cile (che ha ottenuto il primo oro nell'aprile 2024, con l'obiettivo di consolidare la presenza dell'azienda in Sud America), che sta finalmente entrando in produzione. Per il money manager: «Se tutto procede come dovrebbe, il titolo può beneficiare di un rerating importante. Ma attenzione alle incognite, perché Salares Norte resta un progetto complesso e il mercato oggi prezza il successo, ma basta un intoppo nei costi o nei tempi per invertire la narrativa».
James Luke, fund manager metals di Schroders, ritiene che le azioni aurifere siano ancora poco costose da tre punti di vista. Il primo è che la performance di questi titoli rimane fortemente disallineata ai margini dei flussi di cassa record, che continuano ad aumentare. Il secondo motivo è che le valutazioni non sono eccessive, a fronte di bilanci solidi. Il terzo è che il rialzo non è di tipo speculativo: in altre parole non c’è nessun segno di «mania» nel settore, ma piuttosto il contrario. «La transizione dell'oro da argomento di investimento per pochi a vera e propria asset class è ancora relativamente immatura», sottolinea il gestore.
Ma quale prezzo dell'oro è implicito nelle valutazioni attuali delle azioni aurifere? «Nonostante l’oro sia vicino a 3.750- 3.790 dollari l’oncia, le azioni delle compagnie minerarie continuano ad essere valutate come se il prezzo dell'oro a lungo termine fosse intorno a 2.400 dollari, con costi medi poco sopra i 1.500 dollari l’oncia e quindi margini nell’ordine di 800–900 dollari», dice Alessandro Valentino, product manager di Vaneck, che continua :«questo è il livello di redditività che il mercato sta incorporando nei prezzi azionari. È vero che i titoli minerari hanno messo a segno una performance superiore rispetto all’oro, ma ciò riflette un recupero», perché in passato trattavano con uno sconto significativo e solo ora stanno riducendo quel divario. A patto di monitorare attentamente anche i rischi. (riproduzione riservata)