Ci sono due modi per leggere i risultati delle elezioni europee da cui esce un’Europa già anatra zoppa, forte in Parlamento ma debole in alcuni importanti Stati-Nazione.
La prima lettura dell’esito delle urne dell’8 e 9 giugno evidenzia il difficile cammino che la probabile futura Commissione a guida europeista di rito ortodosso avrà nel fronteggiare in seno al Consiglio due dei tre paesi fondatori a guida conservatrice di destra, mentre il terzo è comunque scosso dai pericolosi rigurgiti e successi elettorali dei neonazisti.
Indubbiamente dalle urne sono uscite vittoriose Giorgia Meloni, presidente del Consiglio italiano e Marine Le Pen, possibile vincitrice delle imminenti consultazioni politiche francesi; l’altra donna di successo nei suffragi, la tedesca Ursula von der Leyen, dovrà però fare i conti con le prime due, che potrebbero non essere nella sua compagine di governo comunitario ma che difficilmente avalleranno supinamente le decisioni di Bruxelles in materia di politiche industriali e svolta ambientale.
Chi ha perso (davvero) le elezioni europee
In questo contesto sono tre i grandi sconfitti: il presidente della repubblica francese Emmanuel Macron, che ha subito indetto elezioni, il cancelliere pallido Olaf Scholz, socialdemocratico che ha ricevuto più o meno gli stessi voti della compagine Afd, e Mario Draghi, che l’inquilino dell’Eliseo vorrebbe issare sulla tolda di palazzo Berlaymont. In un’ottica di genere, aggiungendo anche Elly Schlein che in Italia col suo Pd ha registrato un più che buon risultato come secondo partito dopo Fdi, si potrebbe dire che le donne hanno battuto i maschi e in più, per la metà, donne di destra.
Come tenere unita l’Unione sotto il profilo economico
La seconda lettura è di tipo economico, un aspetto che predomina dal 1957, quando col Trattato di Roma si scelse la strada del mercato piuttosto che quella della federazione degli stati, come illustrato dal Manifesto di Ventotene. Il risultato del secondo weekend di giugno conferma il grande paradosso europeo: vince chi declama di aver letto il testo di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, applicandone al contrario i principi ed evitando di dare un’anima sociale e più politica all’Unione, elemento cruciale per avere la pace dai tempi di Immanuel Kant ma anche oggi, perché è quello che vogliono milioni di giovani, i quali, infatti, stanno diventando anti-europeisti perché non vedono alcun impegno nei loro confronti e a favore delle loro istanze di libertà.
In questo quadro complesso, dove il mondo di domani viene plasmato dagli adulti di oggi, mentre i mercati flettono ma non tracollano per l’ondata di destra in Francia, Austria e Germania ma lo spread invece sale a 142 punti per via dell’incertezza e delle politiche da falco della Bce, occorrerà capire come la vittoria dei Popolari europei e della presidente della Commissione uscente (e forse entrante) von der Leyen riuscirà a mantenere in vita i numerosi progetti del programma New Green Deal, in un momento in cui la guerra in Ucraina costringe tutti i paesi dell’Ue a riarmarsi piuttosto che a costruire impianti eolici.
Ciò avverrà con le casse pubbliche esangui – giusto sarebbe ad esempio scomputare dal deficit sia le spese per case e auto green che quelle per la difesa unica – e probabilmente senza più il convinto appoggio degli Stati Uniti, nonostante le grandi celebrazioni dell’ottantesimo anniversario dello sbarco in Normandia.
Nel 1984 il presidente americano Ronald Reagan in quell’occasione, in cima alla parete di Omaha Beach, disse «il nostro destino è il vostro destino». Oggi non è più così, a dispetto dell’emozione dei reduci e dei discorsi di Joe Biden: l’Europa dovrà far da sola, stretta tra un conflitto in armi con la Russia e uno tecnologico e commerciale con gli stessi Usa e la Cina.
L’Europa, soprattutto, da chiunque venga guidata, dovrà fare i conti con il costo della transizione ecologica e con la riduzione del suo peso nel mondo. Oggi l’85% dell’energia mondiale è ancora fossile e per costruire una turbina eolica servono 150 tonnellate di acciaio, mentre per arrivare al 2030 col numero giusto di pale eoliche occorrono la bellezza di 600 milioni di tonnellate di carbone. È la old economy che comanda ancora.
E il nostro continente non è più così benestante. Negli ultimi due decenni la sua popolazione è scesa dal 7 al 5,7% di quella mondiale e il pil è calato dal 26% al 18% di quello globale. Il problema è che gli altri sono rimasti o stabili o sono cresciuti. Nello stesso periodo, come ha ricordato Bankitalia, il pil americano è rimasto stabile al 26% di quello planetario, mentre quello della Cina è quadruplicato. Il calo, secondo il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, riflette l’insoddisfacente dinamica della produttività, che nel periodo suddetto ha accumulato un ritardo di venti punti percentuali rispetto agli Stati Uniti. Occorre rilanciarla, ma come?
Di sicuro non mantenendo fermi i salari, come avviene da trent’anni in Italia, ma con l’innovazione di processo e di prodotto e soprattutto non emanando regole su tutto in un mondo che non le rispetta. Europeisti e non, vincitori e sconfitti, uomini e donne delle istituzioni, dovranno dare risposte chiare. Perché solo l’unione fa la forza nelle difficoltà, come ci hanno insegnato gli alleati 80 anni fa. (riproduzione riservata)