Quando l’inflazione sfida la legge di gravità tutti i rendimenti che prima erano compressi tornano a salire. È proprio quello che sta accadendo in Italia dove a ottobre l’indice preliminare dei prezzi al consumo è sceso ben oltre le attese all’1,2% su base annua, dall’1,6% di settembre, con un -0,3% rispetto al mese precedente. Si tratta essenzialmente di una diminuzione legata all’energia e ai prodotti alimentari freschi, un marcato rallentamento di questi due settori che ha più che compensato l’accelerazione dei prezzi dei servizi ricreativi, culturali e di cura della persona. «I dati confermano come la componente energetica abbia ancora un ruolo decisivo nel determinare la traiettoria dell’inflazione complessiva. Un confronto con le quotazioni di gas ed energia elettrica negli gli ultimi due mesi del 2024 suggerisce che questo effetto base non sia per ora destinato a sparire. Poiché non prevediamo un cambiamento imminente di questo andamento, abbiamo rivisto al ribasso le nostre previsioni sull’inflazione media complessiva dell’Italia per il 2025 dall’1,7% all’1,6%», osserva Paolo Pizzoli, economista di Ing.
La stabilità dell’inflazione di fondo e di quella dei servizi, molto legata alla prima, sembrerebbe inoltre suggerire, secondo Pizzoli, «che in questo terzo trimestre la domanda di consumi non sia in accelerazione, almeno sul fronte dei servizi. Conferma indiretta viene dalle indicazioni sulle intenzioni di modifica dei prezzi nei successivi tre mesi derivanti dall’indagine sulla fiducia delle imprese dei servizi, che ha registrato in ottobre un chiaro rallentamento».
Quindi, secondo l’economista di Ing, bisogna prepararsi a un’inflazione più bassa del passato dopo i picchi di oltre il 10% raggiunti per la crisi energetica provocata dallo scoppio della guerra in Ucraina nel 2022 (tabella in pagina). E questa non è una buona notizia dal punto di vista della crescita del Paese perché è la conseguenza della «stagnazione economica che sta portando con sé un raffreddamento dell’inflazione non destinato ad invertirsi nettamente nell’immediato futuro, a meno di imprevedibili sorprese sul fronte dei prezzi delle materie prime energetiche».
Ma sul fronte dei portafogli, prezzi in frenata possono far tornare interessanti investimenti a rendimento contenuto che avevano perso appeal quando l’inflazione era più alta (anche considerando che nel frattempo la Bce ha tagliato i tassi).
A partire dai conti di deposito. Oggi le migliori offerte (tabella in pagina) a 12 mesi danno il 3% annuo lordo il che, considerando un’inflazione all’1,2%, si traducono nell’1,8% reale. Per quanto riguarda invece i titoli di Stato «ad un aumento delle attese di inflazione corrisponde un aumento dei tassi nominali e, di conseguenza un calo del prezzo dei bond, che sarà proporzionale alla loro durata finanziaria. Viceversa, in caso di un calo delle aspettative di inflazione si avrà una performance positiva dei bond», spiega Filippo Casagrande, responsabile degli investimenti di Generali Investments.
Che stima: «Ad una crescita di 10 punti base delle aspettative di inflazione corrisponde un apprezzamento dell’1,4% dei listini azionari, mentre un bond decennale subisce una performance negativa pari a -0,6% / -0,7%. Un deciso calo delle aspettative di inflazione è quindi storicamente più favorevole al mondo obbligazionario, mentre le azioni tendono a scontare una maggiore preoccupazione per il quadro economico», sottolinea il gestore di Generali Investments.
Ma, come osserva Schroders, ci sono all’interno dell’azionario settori e stili che si comportano meglio con il calo dell’inflazione. La società di gestione ha analizzato i rendimenti nei diversi regimi inflazionistici che si sono susseguiti negli Usa a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso (tabelle in pagina). Come dovrebbero dunque posizionare i portafogli gli investitori, in termini di settori e stili azionari? «I titoli ciclici, come la tecnologia e i beni di consumo discrezionali, generalmente hanno un andamento positivo quando l’inflazione è bassa. La ragione risiede nel fatto che, quando l’inflazione è poco elevata, i tassi tendono a essere ridotti. I titoli tecnologici sono più sensibili ai rialzi dei tassi, poiché generano una quota considerevole dei loro utili nel futuro, quindi, questi flussi di cassa futuri vengono scontati a un tasso più elevato. Per quanto riguarda il settore dei beni di consumo discrezionali, alcuni titoli presentano un’esposizione significativa alla tecnologia, così da agevolare il proprio business», spiega Tina Fong, strategist di Schroders. E sul fronte degli stili di investimento, il «growth (società ad alto potenziale di crescita, ndr) e il quality (società con solidi bilanci, ndr) in genere vanno meglio quando l’inflazione è bassa. Entrambi i settori hanno una ponderazione elevata nella tecnologia. Anche lo stile momentum (approccio di trading che segue un trend di breve periodo, ndr) tende a registrare una buona performance», aggiunge Fong.
E nello scenario estremo in cui l’inflazione scendesse a zero? «L'ipotesi di un crollo dei prezzi, specialmente in un'economia come quella italiana con una crescita del Pil già stagnante, non prefigura uno scenario roseo. Implicherebbe, con ogni probabilità, un significativo rallentamento economico e un importante calo dei consumi. In simili circostanze, la Bce risponderebbe con forza, verosimilmente attuando tagli aggressivi dei tassi per stimolare l'economia», sottolinea Giorgio Broggi, gestore di Moneyfarm. Questa dinamica avrebbe impatti molto diversi sulle varie classi di investimento. «Il mercato obbligazionario vedrebbe netta spaccatura tra titoli governativi e credito: per i primi, l'effetto sarebbe nettamente positivo. I tagli dei tassi da parte della Bce innescherebbero un immediato guadagno in conto capitale, ovvero un aumento del prezzo dei titoli» prosegue Broggi, «ad esempio, su un Btp con duration otto anni, un taglio dei tassi dell'1% genererebbe un guadagno di circa l'8%».
Le obbligazioni societarie a basso rischio (investment grade) «potrebbero beneficiare della discesa dei tassi, grazie alla loro elevata duration media e al profilo di qualità», mentre i bond high yield (i titoli con un rating più basso) «soffrirebbero. Se il crollo dell'inflazione fosse causato da attese recessive, il timore di default aziendali supererebbe il beneficio dei tassi più bassi».
Per l'azionario, le forze in gioco sono contrapposte. «Da un lato, i tassi a zero sarebbero, in teoria, un toccasana per le valutazioni azionarie, poiché aumenterebbe il valore attuale dei profitti futuri», dice Broggi. Fa eco Giuliano Palumbo, presidente di Cfa Society Italy: «Quando l’inflazione si normalizza, le banche centrali possono adottare un approccio meno restrittivo, riducendo la pressione sui tassi e migliorando le condizioni finanziarie complessive. Questo tende a favorire sia le obbligazioni, attraverso una risalita dei prezzi, sia le azioni, grazie a una maggiore appetibilità dei flussi futuri scontati a tassi più bassi. La disinflazione ordinata, in particolare se accompagnata da una crescita economica stabile, crea un ambiente favorevole per la rivalutazione degli asset di rischio».
Dall’altro, però, «questo beneficio verrebbe probabilmente annullato da un contesto recessivo», dice Broggi. In conclusione, dato che la crescita del pil in Italia è già prossima allo zero, «i probabili vincitori risulterebbero l’obbligazionario governativo e, potenzialmente, i bond investment grade, mentre azionario e bond high yield sconterebbero appieno il peggioramento del ciclo economico». (riproduzione riservata)