Promossa a pieni voti sui conti pubblici, ma con un sei risicato sulla crescita. L’Italia si prepara a chiudere il 2025 con più sufficienze che insufficienze in pagella. Il governo ha fatto i compiti per casa ed è riuscito a tenere i conti in ordine, merito anche del ritorno degli avanzi primari, vero marchio di fabbrica del Paese. I mercati hanno apprezzato la prudenza fiscale, come conferma la discesa dello spread sotto 70 punti, ai minimi dalla crisi finanziaria del 2008. Un risultato inimmaginabile fino a qualche anno fa e che farà di risparmiare 17,1 miliardi di interessi da qui al 2029.
Anche Piazza Affari continua a mostrare segni di vitalità ed è tornata ai massimi dal 2001. Ma a dare più soddisfazione sono le promozioni delle agenzie di rating, soprattutto quella di Dbrs, che ha riportato il Paese in classe A. Nuovi upgrade sono attesi l’anno prossimo anche se sarà meglio non festeggiare fino alla primavera, quando Eurostat chiarirà se il rapporto deficit/pil è sceso davvero sotto il 3%. Questione di decimali, essenziali però per archiviare la procedura d’infrazione.
Sui conti pubblici l’Italia ha fatto meglio della Francia, che dovrebbe chiudere il 2025 con un disavanzo sopra il 5%. Sul debito pubblico però il distacco resta ampio (136% vs 117% del pil circa), «anche se le continue crisi politiche oltralpe fanno ipotizzare un sorpasso entro il 2035», sottolinea Marco Fortis, direttore e vicepresidente della Fondazione Edison.
«Unicum in Ue, l’Italia ha messo il suo debito in sicurezza collocando circa 20 punti di pil tra risparmiatori e imprese nazionali, dettaglio che garantisce protezione in caso di tensioni sui mercati. In futuro questo flusso dovrebbe auto-alimentarsi perché la ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane (221% del pil nel 2024) è la più alta dell’Eurozona: i tedeschi, per esempio, sono fermi al 160%».
Quello sulla precarietà dei conti è un pregiudizio con cui si sono confrontati tutti i governi alternatisi - al ritmo di quasi uno l’anno - a Palazzo Chigi. Non c’è da stupirsi, allora, se la stabilità dell’esecutivo Meloni è considerata una delle principali ragioni della luna di miele con i mercati, attestata anche dai rendimenti più alti degli Oat francesi rispetto ai Btp.
Sulla crescita, invece, la vittima illustre è di nuovo la Germania. Altro sorpasso che ha rilanciato la postura internazionale del Paese dopo gli strascichi della crisi del debito sovrano. In realtà il passo più spedito di Berlino (+0,2%) è colpa loro, non tanto merito nostro, perché nel 2025 il pil italiano aumenterà solo dello 0,4% secondo la Commissione Ue. Quanto basta per mantenere il terzo posto nel G7 per crescita post-Covid, non per cancellare la cifra zero davanti alla virgola. Questa volta il record sarà negativo visto che nel 2027 dovremmo essere gli unici in Europa con un rialzo del pil sotto l’1%.
«La crescita è tornata in affanno nonostante i miliardi del Pnrr, che finora sembra un’occasione mancata perché non ha incentivato l’innovazione nel Paese», commenta Marco Buti, in passato direttore della Dg Ecfin dell’Ue ed ex capo di gabinetto del commissario Paolo Gentiloni. «Restiamo affetti da un problema endemico, quello della scarsa produttività, che è l’unico modo per creare vera ricchezza. Dati del Financial Times mostrano che siamo primi in Europa per numero di imprese con la maggiore crescita negli ultimi dieci anni, ma non riusciamo a fare sistema e così le eccellenze restano un’eccezione».
Non è un caso se la produzione industriale si è contratta in 32 degli ultimi 36 mesi. Colpa del caro energia e della frenata della Germania, che ha smesso di assorbire l’export delle imprese italiane soprattutto dell’automotive, troppo connesse al sistema tedesco. «Per cercare di ridare ossigeno il governo è intervenuto all’ultimo secondo utile con 3,5 miliardi per rifinanziare, tra le altre cose, la Zes e Transizione 4.0», ricorda Buti. «Ma le modalità di finanziamento lasciano perplessi. Per cambiare passo bisogna evitare misure una tantum perché le imprese chiedono prevedibilità per investire».
Il resto dipenderà dal contesto esterno, complicato da guerre reali e commerciali. Anche per questo motivo conviene muoversi in autonomia, intervenendo sui salari modesti soprattutto della ristorazione e del turismo. «Sono stati creati molti posti di lavoro (il tasso d’occupazione è salito al 62,7%, livello record, ndr). Ma il binomio alti stipendi/alta produttività resta meno frequente che nel resto d’Europa e il divario si sta accentuando», osserva Buti. «Per evitare la combinazione bassi salari-bassa produttività è necessaria una strategia di reindustrializzazione dell’economia italiana».
Senza retribuzioni adeguate sarà complicato spingere i consumi, che a loro volta rappresentano il 60% della domanda nell’equazione del pil. Una componente che quest’anno, a differenza del passato, non dovrebbe deludere e crescere dell’1,1% anche grazie ai fondi pubblici del Pnrr. In prospettiva sarà importante creare una staffetta con gli investimenti privati delle imprese, compito a cui il governo spera di aver contribuito con la Manovra.
C’è solo un problema. «Il pil non è frenato dalla domanda interna ma da quella estera. Oggi le industrie italiane non producono e si limitano a ridurre le scorte, un calo dei volumi che si ripercuote sulla crescita. Il peggio però potrebbe essere alle spalle perché nel 2026 la Germania dovrebbe riprendersi con i maxi investimenti in difesa e infrastrutture. E con Berlino ripartiranno anche le vendite all’estero delle nostre imprese, che così attenueranno i danni ancora poco visibili dei dazi di Trump», spiega Fortis.
«In ogni caso, dall’export italiano continuano ad arrivare segnali di resilienza grazie a eccellenze come quelle della farmaceutica, che ci hanno permesso di superare il Giappone e diventare quarti al mondo per valore delle esportazioni».
Anche in questo caso il governo ha già giocato le sue carte per spalancare le porte di mercati ricchi come India e Golfo Persico. L’obiettivo è spingere l’export da 620 a 700 miliardi entro fine legislatura, nel 2027. Per l’Italia sarà una delle verifiche più difficili da superare e non saranno ammesse bocciature. (riproduzione riservata)