Nell’attuale crescita stagnante «zerovirgola» affrontare con lucidità il ruolo delle micro e piccole imprese è fondamentale per superare soluzioni preconfezionate e poco efficaci. Le mpi (micro e piccole imprese, questa la definizione che ne dà Confartigianato, con meno di 50 addetti, concetto diverso da pmi che invece comprende le medie imprese) includono il 95% degli imprenditori, generano circa il 27% del prodotto interno lordo e creano oltre metà dei nuovi posti di lavoro.
Queste imprese giocano inoltre un ruolo cardine nella coesione sociale del Paese, contribuendo a preservare i legami tra territori e comunità. Allo stesso tempo però sono anche alla base di alcuni problemi strutturali. La bassa produttività innanzitutto, poiché la frammentazione limita le economie di scala, l’efficienza operativa e frena gli investimenti in ricerca. Anche i bassi salari d’ingresso per i giovani e il peso in Italia dell’evasione fiscale hanno a che fare con la struttura molecolare del nostro capitalismo.
Questi problemi hanno spesso spinto a promuovere fusioni e aggregazioni tra imprese, anche con incentivi fiscali, ma con scarsi risultati. Il numero di micro e piccole rimane stabile a circa 4,5 milioni, un dato che contrasta col sensibile calo demografico della popolazione.
In questa persistenza ci sono fattori culturali, tecnologici e settoriali. L’individualismo, la cultura dell’autoimprenditorialità e il desiderio di essere «capo di sé stessi» prevalgono infatti sull’idea di aggregazione.
L’espansione più marcata del terziario ha favorito nascita e sviluppo delle micro e piccole imprese. Nuove tecnologie, ruolo delle piattaforme digitali e strumenti come e-commerce e cloud computing, hanno peraltro reso le micro e piccole imprese più capaci di stare in piedi da sole. E quindi è inutile chiedersi se «piccolo» sia brutto o bello; «piccolo» è solo un fatto strutturale del nostro Paese.
Peraltro, le micro e piccole imprese italiane si sono rafforzate, la crisi passata è stata molto darwiniana e oggi quelle rimaste sono meno indebitate. Sulla spinta della fatturazione elettronica e della pandemia hanno raggiunto il 53% delle competenze digitali di base, recuperando la media europea, oltre a contribuire più gettito al Fisco. E hanno le carte in regola per essere un fattore strategico per il rilancio, anziché una zavorra.
Come? Agendo su cinque direttrici principali. In primis, accelerando ulteriormente la digitalizzazione delle micro e piccole imprese italiane, primo motore di produttività e competenze. Secondo: vanno ulteriormente promosse le reti di impresa che accrescono la capacità innovativa e la competitività globale. Vanno poi ripensate norme e burocrazie che spesso prevedono regole uniformi per tutti, imponendo costi fissi sproporzionati alle micro e piccole imprese. Occorre inoltre affrontare il credit crunch suggerendo un approccio meno indifferenziato da parte del Fondo di Garanzia delle piccole e medie imprese, e più attento alle micro e piccole imprese. E ci sono settori densi di microimprese, per esempio quello del turismo, che hanno bisogno di vere e proprie strategie pubbliche. Né basta investire sulle filiere, posto che il 70% delle micro e piccole imprese non ne fa parte.
L’Italia deve puntare a una crescita inclusiva che valorizzi tanto l’agriturismo di Spoleto quanto la Ferrari. L’approccio non può essere «o uno o l’altro», ma «entrambi» o «insieme». Non è contrapponendo l’Italia del made in Italy e l’Italia dei camerieri che si combatte lo «zerovirgola». (riproduzione riservata)
*co-fondatore e presidente
di Banca AideXa