Titoli di Stato dell’Eurozona con scadenze non oltre cinque anni e una minore esposizione al dollaro, mentre sull’azionario meno tech Usa e più borse emergenti. Unicredit ricalibra il portafoglio dei clienti in vista del 2026 calcolando una possibile correzione dei mercati entro due-tre anni, quando si scopriranno vincitori e vinti della rivoluzione targata AI.
Nel breve termine, invece, la traiettoria sarà influenzata dal quadro macro e dalle conseguenti scelte delle banche centrali. A partire dalla Fed, che il 10 dicembre ha abbassato i tassi d’interesse per la terza volta di fila (ora sono al 3,5-3,75%) e adesso potrebbe rallentare il ritmo.
«Nel 2026 ci aspettiamo solo un taglio», spiega Manuela D’Onofrio, responsabile Group Investment Strategy e chair dell’Investment Institute di Unicredit. «L’anno prossimo prevediamo un’accelerazione del pil Usa (+2-2,5%, ndr) grazie alla minore pressione fiscale sulle imprese e ai maggiori incentivi per gli investimenti. Il mercato del lavoro sarà meno esuberante ma con una disoccupazione comunque sotto il 5%, mentre l’inflazione rimarrà ben sopra l’obiettivo del 2%. Quindi non ci saranno le condizioni per portare i Fed Fund sotto il livello di equilibrio del 3%, a meno che il nuovo presidente non si dimostri più sensibile alle pressioni di Trump».
È questo timore che spinge Unicredit a privilegiare le obbligazioni con durata media non troppo oltre cinque anni, perlopiù titoli di Stato dell’Eurozona e bond societari investment grade. Troppi tagli dei tassi, inoltre, indeboliranno ancora il dollaro, motivo per cui converrebbe esporsi meno al biglietto verde.
L’altra incognita arriva dal tech, che è valutato a multipli stellari ed è condannato a stracciare le attese per non sprofondare in borsa dopo i conti. Secondo Unicredit, però, non c’è un rischio bolla come nel caso dot-com. «Le valutazioni restano molto care ma credo sia sbagliato fare un confronto con quanto accaduto a inizio anni 2000», commenta D’Onofrio.
«Oggi i prezzi dei titoli sono giustificati dagli utili. Le Magnifiche 7 stanno investendo centinaia di miliardi nelle infrastrutture per l’AI, ma finora hanno usato soprattutto la cassa, non si sono indebitate eccessivamente e restano ancora molto liquide. Come in tutti i cicli finanziari, prima o poi si tireranno le fila e si capirà chi ha esagerato. Ma è difficile prevedere quando accadrà, con conseguente correzione di mercato».
Ecco perché il portafoglio azionario di Unicredit (che da gennaio a novembre ha reso il 9,45% lordo) sarà più equilibrato e con meno tech nel 2026. Ci sarà uno spazio minore per gli Usa, quello dell’Europa rimarrà invariato e si faranno largo i mercati emergenti, Cina in testa. Ormai il contributo al pil mondiale di Pechino e Washington è quasi identico (intorno al 30%) mentre il peso dei loro listini sull’azionario globale non è ancora paragonabile (gli Usa valgono il 70% dell’indice mondiale). Le aziende cinesi scambiano quindi con valutazioni molto più basse (e convenienti) di quelle statunitensi, non sempre a ragione, vista la somiglianza del contesto economico.
Anche l’Ue dovrebbe continuare a stupire perché rafforzerà gli investimenti pubblici, soprattutto nella difesa, e le imprese saranno avvantaggiate dalle politiche fiscali più espansive. Per Unicredit, insomma, il sentiment è positivo ed è ora di puntare su società con multipli meno esasperati e che beneficiano dei periodi di crescita, come le banche. Ma il 2025 è stato anche l’anno dell’oro, che da gennaio ha guadagnato più del 65%.
In questo caso il consiglio è di riservare il 10% del portafoglio al metallo prezioso, suggerimento valido solo per gli investitori con orizzonti di lungo periodo. Il 30% andrebbe puntato sulle azioni mentre il restante 60% sui bond. È questa la ricetta del The Investment Institute, il think tank di Unicredit creato per combinare le competenze degli economisti e degli asset manager della banca in modo da interpretare al meglio un contesto di mercato sempre più complesso. (riproduzione riservata)