Difesa, la guerra è un affare di Stato
Difesa, la guerra è un affare di Stato
Sono state le partecipate pubbliche le protagoniste della corsa di Piazza Affari nel primo semestre. In testa i colossi della Difesa come Fincantieri e Leonardo. Così oggi il Tesoro in borsa vale 90 miliardi di euro

di di Sergio Rizzo 11/07/2025 21:00

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Comincia così l’articolo 11 della nostra Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra….» E chi può non condividere questo principio? Ma il mercato, che come noto non ha sentimenti, resta del tutto indifferente. In certi casi, semmai, i venti di guerra sono un toccasana per alcuni frammenti del listino. Neppure marginali. Dicono molto, a questo proposito, i dati elaborati dal centro studi CoMar relativi al primo semestre di quest’anno che indicano una spettacolare crescita di valore delle partecipate dello Stato quotate in borsa. Crescita alla quale non sono estranee le implicazioni derivanti dalle tensioni internazionali. Diversamente non si possono spiegare determinate performance dei titoli delle imprese pubbliche.

Il caso Fincantieri

Collocato in borsa nel 2014, il titolo Fincantieri era stato prezzato 0,78 euro (con una forchetta che arrivava al massimo a un euro). Oggi la quotazione oscilla intorno ai 16 euro: significa che dal collocamento a oggi chi ha investito in azioni della società cantieristica ha visto moltiplicarsi per più di 20 volte il proprio investimento.

Oltre alle navi da crociera, Fincantieri costruisce navi militari e da circa un anno ha rilevato da Leonardo il settore della difesa subacquea, compresa la fabbricazione di siluri. Fra l’estate del 2024 e oggi le quotazioni del gruppo pubblico - protagonista di una fase di sviluppo significativo da quando nel 2002 venne affidato dal governo di Silvio Berlusconi all’amministratore delegato ora scomparso Giuseppe Bono – si sono più che triplicate. Nel solo primo semestre del 2025, secondo i calcoli di CoMar, la crescita è risultata del 129,59%.

Il titolo Leonardo

E non è nemmeno un caso che al secondo posto per crescita del titolo in borsa, nel periodo compreso fra l’inizio di gennaio e la fine di giugno di quest’anno ci sia Leonardo, con un più 77,67%. Nel gennaio del 2022, prima dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, il valore delle azioni della holding pubblica della difesa alla Borsa di Milano non superava 6 euro. Oggi viaggia intorno a 46 euro. Con il risultato che dall’inizio della «operazione speciale», come Vladimir Putin ha chiamato l’aggressione a Kiev, il gruppo al cui vertice il governo di Giorgia Meloni ha collocato l’ex ministro della Transizione ecologica dell’esecutivo di Mario Draghi, Roberto Cingolani, ha registrato un progresso dell’ordine del 650%.

E se le crisi internazionali hanno come non mai disorientato investitori e operatori, con il fattivo contributo del tira e molla sui dazi promessi dalla nuova amministrazione degli Stati Uniti, le turbolenze non hanno mancato di avere significativi riflessi anche sul settore energetico. Basta ricordare come decollarono i profitti all’indomani dello scoppio delle ostilità, al punto da indurre il governo italiano a decidere di applicare un prelievo sugli utili delle società di quel settore.

L’andamento del settore energetico

A guadagnarci di più, sempre negli ultimi sei mesi, è stata Italgas. Che da gennaio ha registrato un aumento in borsa del 33,66%. Ma anche Snam ha segnato un progresso superiore al 20%. Appena sotto (più 19,23% in sei mesi), l’azione dell’Enel, che resta di gran lunga il pezzo forte di quelle che una volta si chiamavano le partecipazioni statali. E che sono quasi tutte, decisamente, in grande spolvero.

Lo Stato azionista vale 90 miliardi

In sei mesi, è la conclusione della ricerca di CoMar, il mercato così condizionato dal clima di guerra fra l’Europa orientale e il Mediterraneo e dalle tensioni commerciali con gli Usa ha messo il turbo alle imprese di fatto ancora pubbliche. Spingendo la capitalizzazione complessiva delle 13 società e holding pubbliche prese in esame a oltre 263 miliardi, con un aumento di ben 42 miliardi nei confronti del gennaio scorso.

La quota di pertinenza dello Stato azionista sfiora 90 miliardi, cifra che illustra con chiarezza il potenziale ancora esistente nelle privatizzazioni delle quali ancora si continua (inutilmente) a parlare. La capitalizzazione delle imprese rimaste nell’orbita dello Stato, che ha conservato il potere di nominarne i vertici, raggiunge il 28% dell’intero listino.

La top ten delle blue chip italiane

Secondo la classifica delle blue chip italiane stilata da MF-Milano Finanza, delle prime dieci società di Piazza Affari metà sono pubbliche. Al terzo posto, e a breve distanza dalle banche Unicredit e Intesa Sanpaolo, c’è l’Enel. Nel primo semestre dell’anno il titolo della holding energetica oggi amministrata da Flavio Cattaneo ha una crescita che ne ha fatto salire il valore di borsa di oltre 13 miliardi, a 83 miliardi e 468 milioni. La posizione numero sei è occupata dall’Eni, che non ha avuto da gennaio una performance analoga: in sei mesi le azioni del gruppo affidato ormai da 11 anni a Claudio Descalzi sono salite di un modesto 0,97%. Dietro all’Eni spuntano Leonardo, StMicroelectronics e Poste italiane. Con una crescita del titolo del 33,7% da gennaio quest’ultima è la terza società quotata pubblica più performante dopo Fincantieri e Leonardo.

Dietro ancora, perfino una banca: il Monte dei Paschi di Siena, che ora vuole conquistare Mediobanca e le Generali, che in quella speciale classifica occupano il quinto posto, alle spalle di Enel e Ferrari. Più di ogni altra considerazione è la prova che il percorso avviato trent’anni orsono, che avrebbe dovuto separare la politica dall’economia, si è definitivamente interrotto. Adesso, semmai, si va di nuovo in direzione opposta. (riproduzione riservata)