La sottile linea rossa del debito a quota 3.000 miliardi di euro non fa paura, almeno fino a quando la Bce compra i titoli di stato e gli investitori mostrano grande apprezzamento per le aste dei Btp. Ma la notizia che il nostro indebitamento totale stia raggiungendo quella che un tempo sarebbe stata definita come un punto di non ritorno non può non generare qualche timore in un paese che fatica ancora oggi ad avere una crescita in grado di attutire l’impatto di un Moloch del genere.
La cosa migliore in questi casi è ascoltare gli esperti e i massimi tutori delle finanze pubbliche. Milano Finanza lo ha fatto a partire dal ministro dell’Economia in carica passando per alcuni suoi autorevoli predecessori. Il quadro che ne esce è abbastanza rassicurante, anche se risulta abbastanza evidente come la guerra in Ucraina e i suoi effetti finanziari stiano funzionando in modo piuttosto imprevisto come fattore di stabilità sul mercato dei capitali: fin quando i reali problemi sono ben altri, il problema del debito resta sullo sfondo.
In questo momento è più importante raggiungere una pace con Vladimir Putin, organizzare una difesa unica, come ha chiesto la neo presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, costruire un ambiente favorevole agli investimenti, correggendo le norme sul New Green Deal.
Questo non vuol dire che possiamo dormire sonni tranquilli, anche perché l’Italia non lo ha mai fatto. Giancarlo Giorgetti è a conoscenza del fatto che i mercati sanno bene che presto supereremo quota 3.000 miliardi e restano alla finestra: per questo occorre tagliarlo.
Giorgetti è il primo titolare di via XX Settembre che ha preso sul serio la battaglia che ha lanciato questo giornale sul Tagliadebito e lo ha detto pubblicamente nel messaggio che inviato per i 35 anni di MF: «Da ministro dell’Economia condivido la vostra campagna sul cosiddetto Tagliadebito e la sostengo. Solo la consapevolezza della necessità di ridurre l'enorme indebitamento pubblico può liberare, almeno in parte, le risorse necessarie per il rilancio dell'economia italiana».
Ma questa consapevolezza quanto è diffusa e chi lo ha preceduto sulla poltrona che fu di Quintino Sella come interpreta il raggiungimento di quota 3.000 miliardi? Giovanni Tria, ministro dell’Economia nel governo di Giuseppe Conte I, fa un’analisi precisa del fenomeno, dialogando con chi scrive in cerca di consigli.
«Non credo che la quota 3.000 di debito pubblico sia significativa. Credo che i mercati guardino al rapporto con il pil ma soprattutto ai segnali di prospettiva che arrivano dal governo. Certo conta, io credo, nel breve il fatto che il tasso di crescita del pil nominale decresca più rapidamente a causa della riduzione dell’inflazione di quanto si riducono i tassi di interesse nominali».
In altri termini, secondo il professor Tria, «il rischio è un aumento dei tassi reali e quindi la necessità di frenare l’effetto snowball che negli ultimi anni aveva giocato a favore, mentre un fattore di preoccupazione potrebbe nascere se la restrizione di liquidità decisa dalla Bce facesse salire i tassi, ma tale restrizione mi sembra molto graduale, per ora».
Certo per capire come saremo messi tra qualche mese e cosa dovrà fare il governo di Giorgia Meloni occorre capire chi acquisterà i titoli che la Bce non comprerà più e come impatterà il Pnrr sulla crescita: «I titoli in scadenza non rinnovati devono essere collocati sul mercato. Parte del Pnrr è debito, ma la spesa per investimenti del Pnrr dovrebbe aiutare il pil dei prossimi anni. Il pericolo è il rimbalzo negativo dopo il 2026. Oltretutto parte degli investimenti richiederanno nuova spesa corrente di gestione. Spero che sia tutto calcolato. Penso che dovrà essere tema del piano settennale da negoziare. Se non c’è qualcosa che destabilizza i mercati fuori dell‘Italia e se il governo mantiene più o meno la linea Giorgetti non dovremmo avere grandi problemi. In fondo il debito, entro certi limiti, è solo un problema di fiducia». E questa fiducia appare esserci, a vedere anche lo spread, vicino a quota 130.
Un altro autorevole titolare del ministero dell’Economia, Daniele Franco, titolare del Mef col governo di Mario Draghi, si mostra tranquillo come lo sono Giorgetti e Tria e a domanda risponde: «Non attribuirei tanto rilievo a quota 3.000 miliardi. I mercati guardano il rapporto debito/pil. Però un articolo che richiami gli italiani al problema dell’elevato debito ci può stare. La riduzione degli acquisti Bce mette più pressione ovviamente sugli acquisti da parte del mercato. È programmata quindi non ci sono sorprese. Può determinare tassi un po’ più alti. Se non vi sono circostanze critiche, non dovrebbe avere altri effetti».
Ecco, il condizionale è quello che usano tutti gli analisti e non fanno eccezione persone che nel passato hanno gestito il più grande problema che ha il nostro paese. Vittorio Grilli, ministro dell’Economia ai tempi dell’esecutivo di salute pubblica di Mario Monti, usa la consueta formula, da uomo banchiere di alto livello e taglia corto con prudenza: «Non ci sono segnali di particolare attenzione dei mercati sul nostro debito al momento né particolari red lines».
Una persona che è stata ministro e anche presidente del Consiglio come Enrico Letta e che in più ha appena dato alla luce un importante dossier sul mercato interno, si mostra più preoccupato per la Francia, che potrebbe diventare un elemento di instabilità per tutto il sistema e dunque anche per noi. Il debito a 3.000 miliardi è un rischio? «Non credo», la sua risposta. «Il vero problema è se saltasse la Francia, cioè il nostro debito diventa un problema se arriva un meteorite come capitò nel 2011 ma in questo caso il meteorite è potenzialmente la Francia».
Certo la Francia col suo governo ancora in cerca d’autore e il suo debito ormai sopra al 100% del pil rappresenta una sorta di minaccia fantasma per il mercato, ma si sa che di solito in questi casi gli spettri diventano concreti se li si evocano. Basterà ignorare il pericolo?
Come un pericolo per tutti sarebbe stato un mancato accordo sul presidente della Commissione, ragiona Pier Carlo Padoan, anch’egli importante ministro del Tesoro ai tempi dell’esecutivo di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, in quanto tale la linea rossa del debito«non rappresenta nulla». Fino a quando reggono gli assetti comunitari.
Dunque cari lettori c’è da stare tranquilli? A vedere il grafico in pagina sull’andamento del debito pubblico negli ultimi sei anni, sembrerebbe di no. Esso era di 2.484 miliardi di euro col governo Conte I, è salito a quota 2.606 col Conte II, si è innalzato a 2.740 miliardi persino con l’esecutivo Draghi e ha raggiunto il tetto di 2.919 miliardi con Giorgia Meloni a palazzo Chigi.
Mario Monti, commissario europeo, presidente del Consiglio, ministro dell’Economia e senatore a vita, usa tutta la sua esperienza con l’interlocutore che gli chiede un parere e sospira, pare di vederlo: «Mmagari esistessero ancora delle linee rosse sul debito e l’attenzione per vederle».
Constatazione amara di chi ha molta esperienza. La stessa che deve indurci a tagliarlo davvero, questo debito, senza pensare di poter voltare pagina a ogni record: ce lo hanno insegnato personaggi quali Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi, quando quella linea rossa era molto più bassa. (riproduzione riservata)