Se buona parte del mondo, e persino l’Europa a trazione verde, ammette di non poter fare ancora a meno di petrolio e gas, è tempo di riabilitazione anche per il carbone? In Italia la domanda non è accademica, tanto che il governo sta per decidere se e come rinviare lo smantellamento delle due centrali Enel di Brindisi e Civitavecchia, avviate alla chiusura. Non si tratta di un dietro-front rispetto agli obiettivi nazionali di decarbonizzazione, né di un ripensamento sullo sviluppo delle rinnovabili o sul ritorno del nucleare. Nulla di tutto questo, la mossa è solo strategica: riconoscere la più diffusa ed economica delle fonti fossili come riserva di sicurezza in caso di emergenza, conservando i due impianti da 3,6 Gigawatt almeno fino al 2038.
Un precedente c’è e risale al 2023, quando davanti allo shock energetico innescato dall’invasione russa dell’Ucraina, il governo italiano ha chiesto agli operatori di massimizzare la produzione delle centrali a carbone per la tenuta del sistema energetico nazionale.
Una decisione è attesa entro il 31 dicembre 2025, data stabilita per la chiusura degli impianti Enel di Brindisi (Federico II) e Civitavecchia (Torrevaldaliga Nord). Ma è più probabile che si scivoli al 2026. Nel frattempo, nel corso del dibattito sul tema che ha coinvolto gli operatori e i ministri dell’Ambiente e Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto, e della Difesa, Guido Crosetto, è sempre emerso che si tratta di una valutazione sulla sicurezza energetica dell’Italia e che spetta perciò alla politica decidere se le due centrali potranno ancora avere un ruolo di backup in caso di emergenza. L’ altro impianto in quota al gruppo, Sulcis in Sardegna, è invece già fuori dal calendario ravvicinato delle chiusure in quanto ritenuto essenziale per soddisfare il fabbisogno energetico dell’isola almeno fino al 2028, discorso che vale anche per la centrale di Fiume Santo (Ep Produzione).
Certo, c’è ancora un aspetto da chiarire per dare seguito all’operazione carbone per necessità, e non è un dettaglio: mantenere le centrali in stand-by costa, circa 100 milioni di euro l’anno dicono stime ufficiose.
Come procedere, allora, per non farne ricadere gli oneri su Enel, che delle sue scelte gestionali risponde sul mercato, mentre in questo caso dovrebbe accollarsi asset in perdita perché non più produttivi se non in casi eccezionali? Tra le ipotesi c’è quella che intervenga direttamente lo Stato. In pratica, la gestione delle due centrali a carbone potrebbe essere affidata a una nuova entità interamente pubblica, che si faccia carico dei costi di mantenimento pur di assicurare questa riserva di energia anti-crisi. È il processo contrario di quello che ha deciso di fare la Germania, che invece ha incentivato gli operatori a chiudere le centrali, rimborsandoli con soldi pubblici dei costi fissi e dei mancati guadagni. A Leag (Lausitz Energie Kraftwerke), per esempio, ha destinato 1,7 miliardi di euro a titolo di compensazione per il phase-out programmato entro il 2038.
Ma nel caso di Enel c’è un ulteriore aspetto da considerare, di cui finora non si è parlato: gli obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti rappresentano uno dei kpi delle obbligazioni sustainability linked, dai quali dipendono i tassi di interesse da corrispondere agli obbligazionisti. Tenere nel perimetro due centrali, anche se dormienti, è una potenziale spada di Damocle perché andrebbe messo in conto di doverle riavviare su richiesta del governo. L’effetto si lega ancora a quel precedente del 2023, che ha costretto Enel a pagare interessi più alti sulle obbligazioni sustainability-linked, uno dei pilastri della sua strategia finanziaria green.
Il meccanismo di step-up e step-down che collega il costo del finanziamento al raggiungimento di uno o più target di sostenibilità, infatti, è andato per una volta a svantaggio dell’emittente. Dover produrre attraverso le centrali a carbone ha fatto sì che «la riduzione delle emissioni effettuata nel 2023 non sia stata sufficiente a raggiungere il target di intensità delle emissioni Ghg di Scope 1 (emissioni dirette di gas serra, ndr) relative alla generazione di energia elettrica fissato per il 2023». Secondo stime di mercato, su un ammontare di bond per oltre 10 miliardi il mancato rispetto dei target ha pesato per circa 113 milioni di euro.
Intanto, i numeri e le stime appena pubblicati dall’Agenzia Internazionale dell’Energia vanno a supporto delle valutazioni in atto nel governo.
Per il 2025, si prevede che i Paesi dell’Unione Europea abbiano utilizzato 306 milioni di tonnellate, in calo rispetto agli anni precedenti ma con una flessione molto più contenuta rispetto ai crolli a doppia cifra del 2023 e del 2024. Secondo la Iea, il rallentamento della discesa è legato a fattori contingenti: minore produzione idroelettrica, periodi di scarsa ventosità e prezzi del gas più elevati nella prima parte dell’anno. Ma sono proprio questi elementi a dare voce ai sostenitori del carbone, perché la commodity torna ciclicamente alla ribalta come cuscinetto del sistema elettrico. Afferma sempre la Iea che la strada resta segnata se si vogliono rispettare gli obiettivi di decarbonizzazione. Nello scenario base, quello cioè che non considera altri scossoni, il carbone europeo scenderà fino a dimezzarsi entro il 2030 a 153 milioni di tonnellate, e di conseguenza la sua quota nel mix elettrico dell’Ue è vista in calo dall’attuale 10% a circa il 4%, per avvicinarsi a una sostanziale azzeramento nel decennio successivo. C’è però una valutazione messa nero su bianco: il ruolo del carbone è sempre più legato all’adeguatezza del sistema e alla gestione delle fasi di stress della rete, nel contesto di crescita delle rinnovabili. Il carbone, insomma, è destinato a sopravvivere in nome della sicurezza, anche se relegato a un ruolo marginale come fonte di generazione nel mix europeo. (riproduzione riservata)