Meno scommesse, ma più grandi. Cessione dei brand meno profittevoli e stop al m&a per ridurre il debito e far ripartire la crescita organica. È la nuova strategia di Simon Hunt, ceo di Campari da gennaio, per rilanciare il gruppo. Il mercato ha apprezzato la svolta, ma sul titolo pesa ancora l’inchiesta fiscale che ha portato al sequestro di azioni Campari per quasi 1,3 miliardi di euro nei confronti della controllante Lagfin, holding dell’azionista di controllo Luca Garavoglia. Il bilancio della settimana in borsa è leggermente negativo, ma dai massimi di due anni fa le quotazioni sono dimezzate.
Domanda. Sono stati anni difficili per tutto il mondo degli spirits. Da dove volete ripartire?
Risposta. Il mercato si riprenderà, ha sofferto anche per l’inflazione che ha colpito il potere d’acquisto. Stiamo vedendo qualche primo segnale positivo nei consumi, ancora da confermare. Ma Campari va resa più focalizzata e veloce. Negli anni ci siamo allargati troppo, ora voglio riportare disciplina, selezione, chiarezza su dove allochiamo il capitale. Dobbiamo concentrare le risorse sui cinque marchi globali che hanno più potenziale e sulla cultura Camparista, che è unica e che abbiamo un po’ perso. È il mio primo obiettivo: rimetterla al centro.
D. Dove cercherete opportunità di crescita?
R. Partiamo dai mercati sviluppati. Prendiamo l’Italia: ci sono ancora tante occasioni di consumo in cui oggi non riusciamo a servire un Aperol Spritz. Come possiamo approfittarne? Le faccio l’esempio dei festival musicali. Lì oggi serviamo un Aperol Spritz in nove secondi. Ne abbiamo serviti un milione e mezzo durante l’estate nei vari festival. Questo ci ha permesso di centrare un’occasione di consumo nuova. Sui mercati in via di sviluppo vogliamo portare l’esperienza dello Spritz in piazza a Shanghai, Buenos Aires, Lagos, ovunque. L’italianità come brand è super globale, motivante, aspirazionale.
D. Avete annunciato la cessione di 30 brand, circa il 9% del portafoglio. Perché?
R. Sono brand che non ci servono più strategicamente: non sono scalabili o diluiscono i margini complessivi. Marchi che in passato avevano un ruolo tattico, ma quel ruolo oggi non c’è più. Le dismissioni hanno due effetti: semplificano l’organizzazione e generano cassa per portare rapidamente la leva sotto 2,5. A fine settembre eravamo a 2,9. Ridurre il debito è una priorità.
D. Significa anche stop all’m&a?
R. Per ora sì. Abbiamo così tanto potenziale interno che dobbiamo monetizzare. Concentrazione prima, operazioni dopo.
D. Ha parlato di disciplina. A cosa si riferisce?
R. Ai prezzi, soprattutto. Noi siamo nati nei bar e li dobbiamo far crescere i nostri brand. Nei locali si consuma insieme e c’è meno pressione sui prezzi. Alcuni competitor stanno sacrificando margini nella grande distribuzione per inseguire volumi. Io preferisco proteggere il pricing, anche se significa rinunciare a un po’ di volume nel breve. Vale nella tequila, con Espolòn Blanco, ma anche in generale: non voglio farci trascinare in una guerra dei prezzi.
D. L’inchiesta Lagfin non vi riguarda direttamente, ma il mercato teme che per pagare un’eventuale tax bill la holding di Garavoglia possa vendere azioni. Sarà un problema per il titolo?
R. Non commento. È una questione di un mio azionista, non dell’azienda. E non speculo su che cosa farà Lagfin: non sarebbe corretto. (riproduzione riservata)