I mercati obbligazionari in euro stanno attraversando profondi cambiamenti, tra cui la convergenza degli spread tra i titoli di Stato core, ossia quelli di Paesi come la Germania e la Francia, e i periferici di Italia, Spagna e Grecia. Lo spread tra i Bund tedeschi, punto di riferimento per l'Eurozona, e i Btp italiani è sceso dai 116 punti base di inizio gennaio fino ai 68,3 punti base dello scorso 5 dicembre, il minimo dal 2009. Proprio il restringimento dei differenziali di rendimento tra i titoli di Stato dei Paesi dell'area euro, destinato a persistere, e le prospettive di crescita economica migliori nei Paesi periferici potrebbero rendere «anacronistica» la distinzione tra core e periferici, secondo Massimo Spagnol, gestore del reddito fisso di Generali Asset Management.
Due gli altri temi da monitorare nel 2026: le politiche fiscali, soprattutto in Francia e Germania, e la divergenza tra le politiche monetarie della Bce e della Fed. Nel frattempo, l’Italia continuerà a vivere il suo momento di gloria grazie alla promozione del rating sovrano (ultima Moody’s; le date nel 2026 in cui anche S&P e Fitch torneranno a pronunciarsi non sono state ancora annunciate) e alla gestione prudente dei conti pubblici da parte del governo Meloni. Se nei Paesi avanzati il deficit medio è tra il 5% e il 6%, l'Italia viaggia al 3%. Così gli investitori si sono convinti che è in grado di gestire il proprio debito pubblico, nonostante rimanga tra i più elevati (3.080 miliardi a settembre) d'Europa.
Il Btp è il primo della classe (nei portafogli esteri è sempre più presente: 853 miliardi a settembre), una buona notizia per quanto riguarda i fondamentali, ma anche una cattiva notizia perché i livelli di rendimento sono meno attraenti di quanto non lo fossero un anno fa. Ora il decennale italiano paga il 3,46%. Ma con la riduzione del deficit il rendimento del Btp decennale con ogni probabilità scenderà nel 2026 al 3,2% e quello del trentennale dal 4,3% al 4%.
L'unico tra i grandi della zona euro che attualmente rende di più del benchmark italiano è l'Oat francese a 10 anni (3,52%), da qualche tempo pecora nera tra i Paesi Ue. Ma con i Treasury Usa (il 10 anni rende il 4,1%) guardati con sospetto sia perché l’ondata di finanziamenti legati all'AI potrebbe esercitare una pressione al rialzo sui costi di indebitamento degli Stati Uniti sia perché la nomina di Kevin Hassett a governatore della Fed fa temere riduzioni indiscriminate dei tassi anche con un’inflazione superiore al target del 2%, i titoli di Stato dell’Eurozona restano un porto sicuro per gli investitori.
«Credo che gli spread attuali siano destinati a rimanere stabili, almeno per un po’ di tempo. Ci sono, infatti, alcune condizioni che ancorano gli attuali livelli», spiega a Milano Finanza John Taylor, Head of European Fixed Income di AllianceBernstein. «In passato gli spread si sono allargati principalmente in risposta a manovre di politica monetaria, come il passaggio dal quantitative easing al quantitative tightening, o a questioni politiche interne. Per il prossimo anno non prevediamo nessuno di questi fattori».
Guardando indietro, gli investitori erano più a loro agio a detenere titoli italiani rispetto a quelli francesi, soprattutto quando gli spread italiani erano più ampi. Ora che gli spread si sono normalizzati e sono praticamente gli stessi tra Italia e Francia, le opportunità di ulteriori restringimenti sono limitate. Detto questo, «preferiamo detenere titoli italiani piuttosto che francesi, considerando che la Francia deve ancora affrontare numerose questioni politiche che potrebbero influenzare il mercato».
Sulla fascia breve della curva, i titoli italiani non sono particolarmente attraenti perché il rendimento è basso (2,2%). Ma nella fascia tra 5 e 10 anni i titoli di Stato italiani dovrebbero comportarsi bene, grazie al carry aggiuntivo rispetto alla Germania. «Per il mercato italiano, la fascia più interessante è quella tra i 5 e i 7 anni (sotto una tabella con una selezione di titoli di Stato, ndr). Infatti, su questo segmento, se lo scenario resta sostanzialmente invariato, i titoli tendono a convergere verso scadenze più ravvicinate, caratterizzate da spread più stretti nell’arco di un paio d’anni, garantendo così un rendimento superiore a quello indicato dal solo tasso», afferma l’esperto.
«Inoltre, considerando che riteniamo più probabile un taglio dei tassi da parte della Bce piuttosto che un aumento, c’è spazio perché i rendimenti scendano ulteriormente. E la fascia dei 5 anni è la più sensibile alle mosse della Bce e quella che permette di catturare il miglior rendimento per l’Italia».
Anche perché oggi il mercato deve reggersi sulle proprie gambe nell’assorbire l’offerta di titoli. Sono finiti i tempi in cui la Bce acquistava a mani basse. «Abbiamo superato quel periodo difficile, ma la questione dell’offerta si fa sentire soprattutto nella parte lunga della curva, dove sembra esserci meno domanda strutturale per titoli governativi a 20 o 30 anni», nota Taylor.
Di conseguenza, gli emittenti devono adattare l’offerta, concentrandosi sulle scadenze più brevi, dove la domanda strutturale esiste. In effetti, con la Germania impegnata in un’espansione fiscale rilevante e altri Paesi che aumentano la spesa per investimenti e difesa, il deficit dell’Eurozona è destinato ad ampliarsi il prossimo anno e le emissioni lorde dovrebbero raggiungere quota 1.451 miliardi di euro, quasi 100 miliardi in più rispetto al 2025, indica Fabio Balboni, senior economist di Hsbc, aspettandosi emissioni elevate soprattutto nel primo trimestre. Comunque, finché il mercato è sicuro che la Bce manterrà una politica neutrale o leggermente accomodante e che la curva dei rendimenti continuerà a garantire un premio per detenere titoli a lungo termine, la domanda ci sarà, ma questo, chiarisce Taylor, vale principalmente fino alle scadenze a 10 anni. Oltre, la situazione diventa più complessa.
La Spagna continua a mostrare un buon miglioramento strutturale. Gli spread sulle scadenze brevi hanno già reagito positivamente a questi progressi, mentre sul lungo termine c’è ancora del valore. «Ci aspettiamo un ulteriore restringimento degli spread in quella fascia», prevede Taylor. I bond emessi dall’Ue sono interessanti per il loro rating AAA e, a un certo punto, «ci aspettiamo che possano entrare negli indici sovrani. Che ciò avvenga nel prossimo trimestre, nel prossimo anno o tra qualche anno, riteniamo che alla fine accadrà. Quando succederà, assisteremo a un parallel shift con un restringimento degli spread anche lì».
Poi c’è il Regno Unito, che non fa più parte dell’Ue ma resta in Europa. Qui il governo Labour ha fatto un buon lavoro con il recente bilancio, ristabilendo un margine fiscale e convincendo i mercati della propria credibilità sul piano fiscale. Questo dovrebbe portare a un restringimento dello spread tra Gilt e Bund tedeschi. Storicamente, i rendimenti dei Gilt (al 4,43% il decennale) sono mediamente 100 punti base più alti rispetto alla Germania, con un’inflazione circa dell’1% superiore; quindi, in termini di rendimento reale sono sostanzialmente equivalenti.
Al momento lo spread è vicino ai 200 punti base, riflettendo sia le preoccupazioni sull’inflazione nel Regno Unito sia un premio per il rischio fiscale. Più il governo Labour riuscirà a convincere i mercati della propria credibilità fiscale, più questo spread si ridurrà. Tuttavia, le misure adottate implicano anche una prospettiva di crescita più debole e un indebolimento del mercato del lavoro, fattori che dovrebbero contribuire a calmierare l’inflazione, ancora elevata, nel corso del prossimo anno, sostenendo così la performance relativa dei Gilt rispetto ai Bund. «Credo che questa rappresenti», conclude Taylor, «una delle operazioni più interessanti da seguire nel 2026».
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