Negli ultimi mesi si è assistito a una combinazione piuttosto rara, ma già vista alla fine degli anni ‘90, a cavallo della bolla Tmt (Tecnologia, media e telecomunicazioni). Ovvero, indici azionari su valutazioni elevate e spread di credito, soprattutto investment grade, vicini ai minimi dell’ultimo decennio: in area 100 punti base contro i governativi in euro, livelli visti poche volte al di fuori dei primi anni 2000, osserva Banor Sim nel suo outlook 2026 sul mercato obbligazionario, visionato in anteprima da milanofinanza.it. Ebbene, guardando indietro, si possono imparare quattro lezioni.
Nel 1997-2000 gli spread di credito iniziano ad allargarsi già dal 1997 ed accentuano il movimento nel 1998-1999 (crisi Asia/Russia) e le azioni telecom continuano a fare nuovi massimi fino a marzo 2000. In altre parole, spiega Banor, «la bolla si forma durante tre anni di spread in aumento, non in diminuzione. Il mercato azionario ignora a lungo il messaggio del credito o, come si diceva all’epoca, estrae valore dall’aumento della leva!».
Ne deriva una lezione storica con chiare implicazioni operative: non è necessario vedere spread in forte compressione per avere ulteriori massimi azionari, anzi storicamente può avvenire l’esatto contrario. Per un investitore obbligazionario, prosegue Banor, il focus deve essere meno sul livello assoluto degli indici azionari e più sulla qualità del credito, sull’evoluzione del livello medio di leva finanziaria e sulle dinamiche di domanda-offerta sul mercato primario.
Il parallelo corretto con oggi non è il Nasdaq senza profitti del 2000, ma le telecom di fine anni ’90 che erano società molto redditizie, con cash flow stabili e leva inizialmente moderata. Sperimentarono una fase di massiccio re-leveraging per finanziare una nuova infrastruttura (fibra, backbone internet, licenze 3G). Inoltre, negli Stati Uniti e in Europa si spesero oltre 500 miliardi di dollari in cinque anni per reti, fibra e torri, in gran parte finanziati a debito.
L’allargamento degli spread a fine anni ’90 fu guidato soprattutto dall’esplosione dell’offerta di debito (emissioni high yield e investment grade in crescita record, quota elevata di rating B) e dalla richiesta da parte degli investitori di premi per il rischio più alti per assorbire quel volume.
I default aumentarono solo dopo lo scoppio della bolla: l’ondata di insolvenze telecom arriva tra il 2001 e il 2002 (WorldCom, Global Crossing...), cioè a spread già larghi. «Oggi vediamo qualcosa di simile dal lato corporate growth: gli hyperscalers AI/cloud sono molto profittevoli ma stanno affrontando un ciclo di capex straordinario (data center, gpu, cavi sottomarini, infrastruttura energetica)e una parte crescente del funding passa dal mercato obbligazionario, con ondate di emissioni investment grade sia in dollari che in euro», nota Banor.
Il parallelismo con gli anni ‘90 ha, però, dei limiti: è vero che gli hyperscalers si stanno imbarcando in una campagna di spesa molto importante, ma è anche vero che questi investimenti sono, per il momento, finanziati solo in minima parte dal debito e coperti invece abbondantemente dagli utili.
«Per i prossimi sei mesi questo suggerisce che il driver di medio periodo per gli spread non è tanto il default rate, che resta contenuto, quanto il ritmo dell’emissione lorda e la capacità del mercato di assorbirla», avverte Banor. «Se il ciclo di investimento AI/cloud prosegue senza rallentare, è plausibile vedere un irripidimento della curva creditizia e un graduale allargamento degli spread industriali, anche in assenza di stress immediati sui default».
Un’altra lezione poco discussa è stata quella del post-2000 in cui la qualità del credito bancario è rimasta molto robusta: le banche godevano di un forte livello di capitale regolamentare con la vigilanza e la regolamentazione che avevano limitato l’esposizione ai temi più speculativi. Nella fase successiva allo scoppio della bolla, i bond finanziari, soprattutto subordinati, hanno sovraperformato molte emissioni corporate industriali.
Oggi, indica Banor, l’analogia è evidente: le banche europee entrano nel 2025 con npl molto bassi, livelli di Cet1 ampiamente sopra i requisiti e rischio sotto controllo; gli stress test mostrano come, nello scenario base, le banche possano assorbire le perdite creditizie attese interamente con l’utile pre-accantonamenti. Le banche sono solo marginalmente esposte ai trend di credito sotto pressione (finanziamenti privati, prestiti ad aziende tech senza profitti).
Per i prossimi mesi questo porta a una view costruttiva. In un mondo in cui l’industriale si sta lentamente ricaricando di leva per finanziare trasformazioni strutturali (AI, decarbonizzazione, difesa, reshoring), le banche appaiono come «la parte più pulita del credito».
Il subordinato finanziario europeo combina fondamentali migliori rispetto al pre-Grande crisi finanziaria, la regolamentazione rende meno probabili derive di leva eccessiva e l’extra spread rispetto a senior e corporate investment grade remunera il rischio strutturale.
Gli spread di credito oggi sono fra i più bassi dell’ultimo decennio: per molti segmenti investment grade europei siamo intorno a 100 punti base sui governativi, livelli tirati. Prima della Grande crisi finanziaria, gli spread bancari hanno trattato ancora più stretti di oggi. Il modello di business sta evolvendo verso una banca sempre più «utility like» e pesantemente regolata, con limitata leva incrementale e forte pressione su capitale e liquidità.
In un regime in cui le banche sono più simili alle utility regolamentate, meno soggette a cicli di leva aggressiva, soggette a stress test continui e a requisiti prudenziali più severi «un’ulteriore compressione degli spread bancari, anche subordinati, non sarebbe necessariamente irrazionale», precisa Banor.
In particolare, Banor nota come i bond contingent convertible additional Tier 1 (CoCo AT1, ovvero la categoria a spread e volatilità più elevata) hanno trattato in passato a spread nettamente più bassi, pur considerando che, all’epoca, lo status legale di questi titoli era differente, sotto le regole di Basilea II.
Nel breve, quindi, nei prossimi sei mesi, questo si traduce in carry ancora interessante nel subordinato finanziario e in un rischio principale più legato a shock politici/regolatori o a episodi idiosincratici che a un deterioramento sistemico del credito bancario.
Prendendo spunto da queste lezioni del passato, Banor consiglia sul mercato obbligazionario per il 2026 un sovrappeso sul settore bancario rispetto all’industriale, un sottopeso sugli high yield e su settori con leva eccessiva. Infine, l’utilizzo del subordinato finanziario come fonte di carry in un quadro di fondamentali rafforzati. (riproduzione riservata)