Mai un «pizzicotto» aveva causato tanti danni in borsa. Da quando il ministro Giancarlo Giorgetti ha prospettato un nuovo prelievo sulle banche, i titoli del settore hanno interrotto la loro lunga corsa a Piazza Affari. Il solo parlarne ha fatto perdere all’indice Ftse Mib Banche il 4,4% da lunedì 25 a venerdì 29 agosto.
La colpa è della possibile tassa sui buyback, idea scartata l’anno scorso ma tornata sulla scena per finanziare la manovra. All’intervento potrebbe aggiungersi il congelamento delle dta (le imposte differite attive convertibili in crediti fiscali) per un altro anno, il terzo di fila. E tanto è bastato per mettere in dubbio un rally che andava avanti da ottobre 2022, innescato dalla stretta sui tassi della Bce.
In realtà dietro lo stop improvviso ci sono altri due elementi. Il primo è l’ennesima crisi politica in Francia, dove il governo è tornato di nuovo in bilico - ironia della sorte - per colpa della legge di bilancio. Il rischio di elezioni anticipate si è abbattuto sugli istituti francesi e a cascata su quelli europei. L’altro elemento, tutto italiano, è l’affievolirsi della spinta legata al risiko, che si avvia verso la conclusione (almeno la prima fase) con la scadenza dell’ops di Mps su Mediobanca. Normale allora che alcuni investitori, in questa situazione d’incertezza, siano passati all’incasso.
In questi giorni gli analisti hanno ricordato che i portafogli dei gestori erano sovrappesati sulle banche. E come dargli torto viste le performance da gennaio dell’indice di settore, cresciuto più del 50% a Piazza Affari. Gli istituti italiani ora scambiano in media a 10 volte gli utili attesi nel 2026 e trattano a 1,5 volte il patrimonio dallo 0,5-0,6 precedente alla risalita dei tassi. Valore giustificato se si considera l’incremento della redditività, passata dal 7-8% al 14-15%, con picchi sopra il 20% per i due big italiani Intesa Sanpaolo e Unicredit.
È in questo quadro che il trio di incertezze entra in scena. La prima troverà risposta l’8 settembre con il voto di fiducia al Parlamento francese. Lo stesso giorno scadrà l’ops di Mps su Mediobanca, anche se il risiko potrebbe regalare nuove sorprese ora che Banco Bpm è sfuggita alla presa di Unicredit e potrebbe creare il terzo polo con Siena. Resta solo il tema manovra, ma in questo caso servirà più tempo per avere un quadro chiaro. Prima bisognerà aspettare il tavolo tra governo e Abi, e poi capire se l’eventuale tassa sui buyback reggerà o sarà modificata dalle Camere a dicembre.
Intesa Sampaolo e Unicredit sarebbero le più toccate dall’imposta sul riacquisto di azioni proprie, soprattutto se fosse retroattiva come successo in Francia. Piazza Gae Aulenti «è la più attiva sul fronte del buyback e attualmente ha in corso una prima tranche da 1,8 miliardi su un ammontare residuale complessivo di 3,6 miliardi riferiti all’utile 2024», scrivono gli analisti di Equita. Ca’ de Sass «invece valuta distribuzioni addizionali su base annua che stimiamo in 2 miliardi (circa il 2% della capitalizzazione)».
Questi programmi hanno contribuito alla corsa in borsa (Unicredit +80% nell’ultimo anno e Intesa +45%) perché ai buyback segue di solito l’annullamento e quindi la riduzione del numero di titoli sul mercato, con conseguente incremento dell’utile per azione. Quindi è anche merito dei riacquisti se le due più grandi banche italiane hanno il maggior numero di buy per gli analisti (18 Intesa e 13 Unicredit), giudizio a cui ha contribuito il total return degli ultimi tre anni (265% Ca’ de Sass e 670% Piazza Gae Aulenti). I due istituti sono inoltre quelli con il maggior multiplo rispetto al patrimonio: per entrambi 1,6 volte.
L’unica altra banca italiana con un programma rilevante di buyback è Mediobanca (400 milioni per il 2025). Anche in questo caso le performance in borsa sono di tutto rispetto, con un +40% circa nell’ultimo anno e un total return di oltre il 200%. Il futuro del titolo è legato all’esito dell’ops di Mps, basata su 2,9 miliardi di dta che verrebbero recuperate più velocemente in caso di fusione con Piazzetta Cuccia.
In questo caso, però, non si tratta delle stesse imposte guardate dal governo: quelle che userebbe Siena sono sulle perdite pregresse, mentre quelle già congelate per ventiquattro mesi con la scorsa manovra sono su svalutazioni su crediti e avviamenti. Negli ultimi anni Mps è tornata in salute e anche il titolo ne ha beneficiato in borsa, dove ha guadagnato il 50% in un anno. Ma il total return sconta ancora le scorie del passato (per anni il Monte non ha staccato dividendi): quello degli ultimi tre anni è fermo al 24%.
In caso di successo dell’ops il polo Mediobanca-Mps potrebbe allargarsi a Banco Bpm. Piazza Meda è rimasta per otto mesi sotto passivity rule dopo la tentata scalata di Unicredit, ma la mossa di Andrea Orcel non ha impedito al titolo di correre (+95% dallo scorso agosto), aiutato anzi dall’appeal speculativo. Negli ultimi tre anni il ceo Giuseppe Castagna ha garantito ai suoi soci il terzo total return tra i big italiani (454%) e ora è libero di tornare a muoversi sul fronte del risiko.
Tra le grandi, finora, solo Bper ha portato a termine un’ops con successo (se si esclude Bpm su Anima), quella sulla Popolare di Sondrio. I due titoli hanno subito di meno le voci sulla manovra grazie alla promozione di Deutsche Bank, che ha alzato il target price sugli emiliani a 12,1 euro dai precedenti 8,4 euro e sui valtellinesi a 11 euro da 10,8 euro. Bper inoltre è terza per buy (11) e ha guadagnato quasi l’80% in borsa in dodici mesi, con un total return del 570% negli ultimi tre anni.
Questo il passato. Cosa accadrà ora ai titoli delle banche italiane? Nonostante le incognite gli analisti ricordano che i multipli sono ancora ragionevoli e le distribuzioni delle società finanziarie restano le più alte a Piazza Affari. Gli istituti di credito avranno difficoltà sempre maggiori a ripetere le stesse performance del passato, ma potrebbero regalare sorprese con un secondo round di m&a (magari anche a livello europeo) e sfruttare i tassi che sembrano stabilizzati in area 2%. Quindi per gli esperti le banche sono ancora una scommessa sicura e sembra presto per una forte rotazione settoriale.
Nemmeno la possibile tassa sui buyback deve spaventare troppo. L’ipotesi più accreditata è l’introduzione di un’aliquota tra il 2 e il 3% sul valore lordo dei riacquisti, basandosi sul modello Usa che individua l’imponibile nel valore di mercato delle azioni. Considerato anche un nuovo congelamento delle dta, l’impatto sugli istituti (compresi i non quotati) non supererà 2 miliardi su una capitalizzazione di 250 miliardi dell’intero settore.
Sarebbe diverso, invece, se il governo iniziasse a chiedere un contributo ogni anno, perché in questo caso gli investitori potrebbero essere frenati dal rischio politico. «Trovare le risorse per ridurre le imposte e stimolare sviluppo e occupazione è un fine giusto», osserva sul tema Marco Osnato (FdI), presidente della Commissione Finanze della Camera.
«Le banche hanno tutto l’interesse ad avere clienti e aziende solide, in grado di ripagare i mutui e i prestiti ricevuti. Non abbiamo nulla di personale contro gli istituti perché le tasse non sono fini a se stesse e non colpiscono nessuno in particolare: servono solo a redistribuire la ricchezza per offrire più servizi ai cittadini». (riproduzione riservata)