Quindici miliardi di euro. A tanto ammonta l’importo massimo dei buyback in corso a Piazza Affari, tra quelli già iniziati e quelli annunciati. Numeri da record, che si inseriscono a loro volta in un trend molto forte in tutta Europa. Gli analisti di Barclays, in un recente report, hanno stimato che nel primo trimestre del prossimo anno possano arrivare nel continente annunci di nuovi riacquisti di azioni proprie per un importo pari a 50 miliardi. Solo a novembre, secondo lo studio, in Europa sono stati eseguiti buyback per 19,3 miliardi: il 2,3% dei volumi azionari del Vecchio continente è stato frutto di riacquisti di azioni.
Se i numeri in gioco sono questi, la domanda sorge spontanea: è possibile costruire un portafoglio di società di Piazza Affari che uniscano alla remunerazione degli azionisti per antonomasia, il dividendo, anche una quota di rendimento aggiuntivo tramite buyback? Un «total yield» insomma, come lo definisce la banca inglese, che vada ad aggiungersi alle performance dei titoli, facendo aumentare il cosiddetto total return, ossia la remunerazione complessiva per i soci delle aziende quotate.
Sulla scia di quanto fatto da Barclays con le azioni europee MF-Milano Finanza è andata a costruire un paniere delle società di Piazza Affari (segmento Egm escluso) con almeno un miliardo di euro di capitalizzazione e un buyback in corso o annunciato da ottobre in avanti. I titoli sono stati ordinati per total yield, ossia la somma di rendimento da dividendo stimato (e calcolato sulla capitalizzazione di mercato attuale) e rendimento da buyback. Quest’ultimo è stato a sua volta calcolato, seguendo la metodologia proposta da Barclays, prendendo in considerazione esclusivamente il valore del programma effettivamente eseguito, e non quello massimo annunciato.
La scelta è stata fatta per cercare di offrire una stima il più conservativa possibile, poiché si è scelto di usare il valore effettivamente eseguito dei programmi e non quello potenziale: i programmi di riacquisto di azioni proprie infatti possono essere sospesi o anche cancellati, e laddove ciò si verificasse calcolare lo yield sull’importo massimo potrebbe condurre a previsioni troppo ottimistiche. Per ogni titolo è stata indicata inoltre la quota di buyback già completato. Come è naturale, più il programma è stato eseguito, più il buyback yield tende a salire. In questo modo sono stati selezionati 25 titoli, che mostrano un total yield medio del 4,57% e mediàno (valore che esclude i casi limite) del 4,62%.
In cima alla lista compaiono due titoli reduci da un 2025 tutt’altro che memorabile in borsa: Nexi (-26% la sua performance a Piazza Affari) e Inwit (-21%). Entrambe le società hanno in corso buyback importanti, rispettivamente da 300 e 400 milioni di euro. Complici le performance borsistiche non entusiasmanti, le quote di riacquisti di azioni proprie già completate (98% per Nexi, 75% per Inwit) generano dei buyback yield corposi, al 6,37% e 4,22%. A cui vanno sommati i dividend yield attesi: 6,34% e 6,53%. Risultato: i total yield delle due quotate sono del 12,7% e 10,8%.
Ovviamente chi volesse investire in queste società dovrebbe scommettere anche su un apprezzamento dei titoli. Scenario ampiamente realistico secondo gli analisti che li coprono, e che vedono un potenziale di rialzo nel prossimo anno pari al 49% per la fintech dei pagamenti elettronici e del 47% per il gruppo di infrastrutture wireless. Ultimo ma non per importanza, le due aziende trattano ora a forte sconto rispetto alla media degli ultimi cinque anni: del 93% Nexi, del 55% Inwit. Qual è la chiave di lettura di tutti questi dati? In buona sostanza, gli analisti di mercato stanno dicendo che le due società potrebbero aver finito la loro caduta, e hanno tutte le carte in regola per rialzarsi. Tanto più che entrambe mostrano una buona propensione a remunerare i soci.
Anche per chi non volesse scommettere su titoli che nell’ultimo anno hanno creato qualche grattacapo, le occasioni non mancano. Come prevedibile, nel paniere compaiono i nomi di Eni (6,59% il total yield), Unicredit (6,07%), Enel (6%), Poste Italiane (5,3%), Generali (5,02%) e Unipol (4,62%). Non c’è Intesa Sanpaolo, ma solo perché il suo programma di riacquisto di azioni da 2 miliardi lo ha completato a ottobre, e quindi non rientrava nei parametri utilizzati per la compilazione del basket.
Un titolo come Enel è particolarmente interessante in una logica di portafoglio da doppia resa, tanto che anche Barclays lo ha inserito nel suo Buyback Monitor europeo. Allo stato attuale la società energetica guidata da Flavio Cattaneo ha un buyback yield dello 0,75% e un rendimento da dividendo atteso pari al 5,25%. Un 6% di total yield cui si potrebbe sommare, secondo gli analisti che coprono il titolo, un ulteriore 3,6% di performance. Upside potenziale non certo impressionante, ma coerente con il settore di riferimento della società: quello delle utility. Enel è arrivata al 70% circa di un programma di riacquisto di azioni da un massimo di 1 miliardo di euro: il che significa, sottolinea Barclays, che c’è ancora un buyback yield potenziale dello 0,4%.
Un altro nome forte in un portafoglio di questo tipo è quello di Unicredit: 2,39% di buyback yield (frutto dell’esecuzione al 68% del maxi-piano da 3,6 miliardi) più 3,68% di rendimento da dividendo atteso. Nonostante la grande corsa degli ultimi tre anni – oltre il 400% di performance – gli analisti vedono ancora del potenziale nel titolo della banca guidata da Andrea Orcel, e le attribuiscono un potenziale di upside superiore al 9%.
In vista del prossimo anno, e in attesa della maxi-ondata di riacquisti di azioni stimata da Barclays, gli analisti della banca inglese hanno costruito il loro basket di titoli europei da buyback. Vi compaiono due quotate di Piazza Affari: Eni, forte di un total yield del 6,59% (di cui 0,41% dal riacquisto di azioni proprie) e Azimut, che ha di recente annunciato l’avvio di un programma da 500 milioni e può contare su un dividend yield atteso del 4,99%.
A livello geografico i mercati di Norvegia, Regno Unito e Portogallo guidano la classifica dei rendimenti totali per gli azionisti, in un range tra 6% e 8% tra dividendi e buyback. Mentre Finlandia, Belgio e la già citata Norvegia presentano la maggiore capacità di buyback ancora inutilizzata. La Francia rappresenta invece, a oggi, il principale punto debole del portafoglio: la proposta di una tassa del 33% sui riacquisti ha frenato l’interesse degli investitori e la strategia delle aziende. Barclays ritiene però che la revisione del provvedimento da parte del Senato, attesa entro metà dicembre, possa attenuare il rischio politico e innescare un recupero dei titoli francesi.
Insomma, con la raffica di buyback alle porte e il conto alla rovescia per le comunicazioni dei dividendi ormai partito (anche se per sapere gli importi deliberati dai cda bisognerà attendere ancora due o tre mesi), un portafoglio da doppia resa fa molta gola. Tanto più in un contesto di generale ottimismo dei grandi investitori verso le borse europee, Italia inclusa.
Ma chi volesse adottare una strategia di portafoglio di questo tipo deve tenere a mente anche le avvertenze: a cominciare dal fatto che i buyback yield non si traducono necessariamente in rendimenti reali. La filosofia del buyback è infatti diversa da quella del dividendo. L’investitore non gode di un beneficio immediato nel suo conto corrente, ma di un valore che si riflette (o meglio, dovrebbe riflettersi) sul prezzo di mercato dell'azione. In seguito al buyback e alla cancellazione delle azioni da parte della società (operazione non obbligatoria) il prezzo del titolo dovrebbe salire per riflettere il maggior utile per azione della società (eps): ci sono meno azioni in circolazione e quindi, a parità di utile netto, l’eps dovrebbe salire. Questo è proprio il limite principale dei buyback: affinché l'effetto atteso si realizzi devono esserci valutazioni dei titoli ragionevoli e un management di qualità, che non utilizzi questo strumento per fare cosmesi finanziaria – critica sollevata dagli analisti a molte quotate americane – o per provare a nascondere al mercato dei deficit strutturali nella crescita attesa.
Unire al rendimento da dividendo anche una parte di remunerazione tramite buyback può avere un senso anche in ottica di ottimizzazione fiscale del portafoglio. A differenza delle cedole, che sono tassate al 26%, i riacquisti di azioni proprie – e le successive cancellazioni – dovrebbero avere un impatto sul valore di mercato del titolo. Una plusvalenza teorica, ovviamente, che diventa effettiva solo quando si sceglie di vendere l'azione: non c’è quindi nessuna tassazione diretta. Si paga il 26% solo su un’eventuale plusvalenza quando si decide di vendere il titolo: ma questo principio è identico anche per le azioni che staccano un dividendo.
Quindi, un approccio di questo tipo può avere una duplice valenza: da una parte fornire una distribuzione periodica (magari nell'ambito di una strategia di income investing). Dall’altra, dare un impulso alla crescita di lungo termine del capitale, con un occhio al fisco. (riproduzione riservata)