Euro forte, qual è la soglia del dolore per l’economia? La Bce vede rischi oltre quota 1,20 dollari
Euro forte, qual è la soglia del dolore per l’economia? La Bce vede rischi oltre quota 1,20 dollari
Il rafforzamento della moneta unica riduce l’export e abbassa inflazione e pil nell’Eurozona. Perciò la Bce è in allerta. In passato tuttavia le imprese hanno resistito al cambio sfavorevole. Un maggior ruolo internazionale dell’euro ha soprattutto vantaggi

di Francesco Ninfole 04/07/2025 20:00

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Per anni l’Eurozona ha sognato di avere una moneta che guadagnasse spazio a livello internazionale rispetto al dollaro. E dopo il “Liberation Day” del 2 aprile questo sta accadendo davvero, anche se più per la crisi di credibilità degli Stati Uniti che per la forza dell’Europa. Il problema è che le politiche del presidente Usa Donald Trump stanno cambiando il sistema economico e finanziario internazionale a una velocità inattesa. Così l’apprezzamento dell’euro potrebbe diventare persino un problema per l’economia dell’area (Italia inclusa) e per i piani della Bce.

L’euro si è mosso negli ultimi giorni attorno a 1,18 dollari, su livelli superiori del 14% rispetto a inizio anno (quando era a 1,035). L’apprezzamento della moneta unica riduce le esportazioni e abbassa crescita e carovita nell’Eurozona: un effetto che si aggiunge così a quello dei dazi. Ipotizzando tariffe Usa al 10%, i prodotti europei potrebbero risultare più cari di quasi un quarto sul mercato americano.

Nei giorni scorsi il vicepresidente della Bce Luis De Guindos ha osservato che «un livello di 1,17 dollari, e anche 1,20 dollari, non è un problema», ma «qualcosa di più oltre la soglia sarebbe molto più complicato».

Fabrizio Pagani, partner di Vitale (già capo della segreteria tecnica del ministero dell’Economia), osserva: «Non parlerei di soglia critica del cambio, si tratta di un continuum: più l’euro si apprezza, più le esportazioni ne risentono. Saranno più colpiti i prodotti a minore valore aggiunto e con bassa marginalità, che non dispongono di spazi sufficienti per assorbire l’effetto combinato di cambio sfavorevole e dazi. Per questo è cruciale concludere un’intesa commerciale con l’amministrazione Trump che sia non penalizzante per le nostre imprese. L’Italia è un grande Paese esportatore e quindi particolarmente esposto».

L’impatto sulle imprese europee e italiane

Alessandra Lanza, senior partner di Prometeia, fa notare che il rincaro delle esportazioni sarà nei confronti di tutte le merci scambiate verso l’area del dollaro (la metà del totale), quindi non solo verso gli Stati Uniti. L’Europa così potrebbe ritrovarsi con «un aggravio dei prezzi dei beni che si propaga lungo le filiere essendo i Paesi europei in prevalenza manifatture di trasformazione».

Lanza però ricorda anche il beneficio per l’acquisto di servizi (Italia e Paesi europei sono importatori netti in questo ambito), mentre i redditi rimpatriati (come quelli delle filiali Usa di società dell’area euro) subiranno il calo di valore legato al deprezzamento del dollaro. Lo stesso vale per i profitti su azioni e obbligazioni Usa.

Un’analisi di Prometeia comunque evidenzia la capacità di difesa delle imprese europee e italiane che storicamente sono riuscite ad aumentare l’export totale di beni anche nelle fasi di rafforzamento dell’euro sul dollaro, soffrendo più per la concorrenza della Cina che per l’andamento del cambio.

«Nel 2002-2004 la crescita italiana delle esportazioni si era quasi arrestata, a causa anche dell’ingresso della Cina nell’arena del commercio internazionale. Ma nelle successive fasi di apprezzamento dell’euro la dinamica delle vendite all’estero si è sempre mantenuta sostenuta, anche superiore a quella di periodi con una svalutazione della moneta europea», sottolinea Lanza.

A livello settoriale, aggiunge l’economista, le prime due fasi di apprezzamento dell’euro (2002-2004 e 2007-2008) hanno avuto un impatto soprattutto sui settori più esposti alla concorrenza cinese (moda, mobili ed elettrodomestici, elettronica e altri beni di consumo). Nel decennio successivo, invece, nessun settore ha evidenziato una flessione dei valori esportati durante le fasi di apprezzamento dell’euro (a parte la moda nel 2020-2021, ma per ragioni legate al Covid più che al cambio).

Questo è avvenuto, precisa Lanza, «grazie al processo di riposizionamento qualitativo e geografico dell’offerta che ha reso la competitività italiana meno dipendente dalle fluttuazioni del cambio».

Quanto al futuro, Lanza ritiene che sia «molto difficile» individuare una soglia critica del cambio. Più dell’euro-dollaro (atteso da Prometeia a 1,13 nel 2025 e 1,16 nel 2026) peserà per un’eventuale frenata dell’economia «il livello di incertezza che rende deboli gli investimenti», dice Lanza. Perciò «vanno individuate misure interne all’Europa che rendano più conveniente ed attrattivo per gli imprenditori investire in Europa».

In merito alle esportazioni, l’impatto sarà legato a fattori tra cui «la durata e persistenza del rafforzamento dell’euro, il concomitante stato dell’economia e del commercio mondiale e la qualità e il grado di sostituibilità dei beni».

Un fardello per l’Eurozona?

Il recente apprezzamento dell’euro ha comunque spinto gli osservatori a domandarsi se un rafforzamento della moneta unica possa rivelarsi un boomerang per l’economia dell’area euro. Pagani rileva che «quello che ha impressionato è stata la rapidità della discesa del dollaro», anche se in passato «il cambio è stato drogato dall’eccezionale forza dell’economia americana».

La discesa del dollaro degli ultimi mesi, aggiunge, è legata alle preoccupazioni sulla politica economica americana ma anche ai punti di forza dell’Europa che «appare oggi come un l’unico blocco economico che offre politiche prevedibili, buoni rendimenti e rule of law. Non sappiamo quanto il ribilanciamento sia duraturo. Finora lo abbiamo visto soprattutto da parte di investitori europei. Qualora si aggiungessero investitori globali il fenomeno potrebbe divenire massiccio».

Nel complesso però Pagani evidenzia gli aspetti positivi di un aumento del ruolo internazionale dell’euro: «Avere una moneta centrale nel sistema finanziario globale significa maggiore autonomia strategica. Sempre di più la finanza è anche uno strumento di sicurezza e difesa. Si pensi solo al ruolo che oggi gioca il dollaro per le sanzioni». Inoltre, osserva, «in termini economici un euro che aumenta il proprio ruolo di riserva globale comporta maggiori investimenti su asset in euro e quindi minori costi di finanziamento. Tutto ciò consentirebbe ai Paesi dell’Eurozona di sostenere livelli più elevati di investimento pubblico, senza compromettere la sostenibilità del debito. Per andare in questa direzione ci sono diverse misure da prendere, ma quella chiave è creare un mercato liquido e profondo di eurobond».

Nel frattempo Trump punta a liberarsi di una parte del «privilegio esorbitante» del dollaro, considerato ormai quasi un fardello. Ma la strategia può essere pericolosa anche per gli Usa. «Negli ultimi decenni gli Stati Uniti hanno garantito due beni pubblici globali: stabilità finanziaria con il dollaro e ordine mondiale con la potenza militare», dice Pagani. «È molto presto per pensare che il dollaro non sia più la moneta centrale del sistema economico globale. Peraltro, se questo fosse il trend, dovremmo assicurarci che avvenga gradualmente: cambiamenti bruschi potrebbero innescare forte volatilità e perfino crisi finanziarie perniciose per tutti. Una perdita per gli Stati Uniti del loro “privilegio esorbitante” passerebbe anche per un ridimensionamento del loro ruolo politico e di sicurezza».

Gli effetti per la Bce

Per quanto riguarda la banca centrale, il rischio è che l’euro forte spinga l’inflazione in modo più ampio sotto il target del 2%. In questo caso la Bce dovrebbe tagliare ancora i tassi quest’anno. Francoforte è in una posizione delicata perché nelle ultime proiezioni di giugno ha indicato l’inflazione all’1,6% nel 2026, prima di tornare al 2% nel 2027. E queste proiezioni, come riportato nei verbali della riunione del 5 giugno, sono condizionate a tassi di mercato che incorporavano altri due tagli Bce, oltre a quello dello 0,25% di giugno. Se la tendenza di apprezzamento dell’euro si confermerà, l’inflazione potrebbe così scendere anche al di sotto dell’1,6% atteso per l’anno prossimo, allontanandosi ancora di più dall’obiettivo del 2%, con il rischio di disancoraggio (al ribasso) delle aspettative di medio termine.

Diversi membri del consiglio direttivo Bce (tra cui il governatore finlandese Olli Rehn, il portoghese Mario Centeno e persino il falco belga Pierre Wunsch) hanno evidenziato che l’euro forte potrebbe essere un problema e che i rischi sull’inflazione sono soprattutto al ribasso. Tutto resta legato all’andamento dei mercati valutari nelle prossime settimane. Gli operatori monetari si aspettano una pausa sui tassi Bce a luglio, ma prevedono un altro taglio quest’anno (al 50% a settembre, al 100% entro dicembre). (riproduzione riservata)