L’euro si aggira intorno a quota 1,14 dollari: la parità tra le due valute è ormai un lontano ricordo. Non è la prima volta che il divario monetario tra le due sponde dell’Atlantico si allarga, ma le strategie sempre più divergenti delle due banche centrali stanno attirando grande attenzione.
Alla fine di ottobre, spiega Pierre-Antoine Dusoulier, fondatore e ceo di iBanFirst, mentre la Bce ha scelto di mantenere una linea di continuità, la Fed ha deciso un nuovo taglio dei tassi di 0,25 punti, nonostante un’inflazione ancora persistente. Una mossa che ha ampliato ulteriormente la distanza tra i due blocchi economici.
La Bce prevede per l’area euro una crescita contenuta ma stabile, vicina ai livelli «normali» pre-Covid, con un’inflazione sotto controllo e allineata al target. In questo scenario, nuovi interventi espansivi dovranno attendere: la priorità resta la stabilità.
Negli Stati Uniti, invece, il quadro è molto più incerto. «La crescita rimane solida ma volatile, stimata intorno all’1,5% per fine anno, mentre l’inflazione si mantiene vicino al 3%», prosegue Dusoulier. Tuttavia, la qualità dei dati economici continua a destare dubbi, tra revisioni frequenti e campioni limitati.
«Se l’Europa affronta il rallentamento con un rigore quasi meccanico, l’economia americana naviga in acque più agitate, accettando pienamente l’incertezza come condizione strutturale», commenta il ceo di iBanFirst. In questo contesto, la banca centrale statunitense ha ormai chiaramente scelto la propria direzione.
Sulla carta, le banche centrali restano indipendenti, una condizione pensata per proteggerle dalle pressioni politiche. Nella realtà, però, l’influenza politica continua a farsi sentire: in modo diretto, attraverso nomine e dichiarazioni pubbliche, o in maniera più sottile, via vincoli di bilancio ed equilibri elettorali, spiega Dusoulier.
La nomina di Stephen Miran, ex consigliere economico della Casa Bianca, nel board della Fed è emblematica di questa tendenza. «L’ipotesi di un rapido allentamento monetario, da tempo auspicato dal presidente statunitense, Donald Trump, si fa sempre più concreta. La conferma di Miran invia un segnale chiaro: la Fed è pronta a sostenere l’economia nei prossimi mesi», prevede l’esperto.
Nell’Eurozona, invece, «l’indipendenza monetaria assume una forma collettiva. La Bce risponde a un insieme di Stati con priorità politiche e fiscali spesso divergenti. Le pressioni sono, quindi, più diffuse e meno dirette, ma non per questo meno presenti.
Il risultato», indica Dusoulier, «è una Bce più prudente, guidata più dalla ricerca di stabilità politica e macro-regionale che da richieste governative specifiche».
Il rischio, tuttavia, è evidente: questa attenzione quasi ossessiva alla stabilità potrebbe far perdere di vista il quadro generale. L’economia europea sta rallentando e, nella corsa globale all’innovazione, il divario con Stati Uniti e Asia si fa sempre più profondo. Le imprese innovative resistono, ma senza un adeguato supporto finanziario è difficile restare competitivi. Riattivare ora il motore monetario appare sempre più necessario.
Quanto alla stabilità dell’euro, invece, la partita sembra già vinta. «Il principale rischio per l’euro oggi non è una crisi di fiducia, ma la sua nuova posizione di valuta rifugio», avverte Dusoulier. Nel 2025, il dollaro ha perso ulteriore terreno rispetto all’euro, circa l’11% da inizio anno. Le ragioni sono molteplici: differenziali di tasso, flussi di capitale verso l’Ue e un progressivo riequilibrio delle riserve monetarie da parte di imprese e banche.
Il risultato è un fenomeno concreto, anche se ancora graduale: la de-dollarizzazione. In un’analisi interna condotta su 10,68 miliardi di euro di pagamenti internazionali B2B nei primi sei mesi del 2025, emerge che le aziende stanno riducendo l’uso del dollaro nelle transazioni internazionali. La quota di pagamenti effettuati in euro è passata dal 47% al 50% nello stesso periodo, con un aumento costante mese dopo mese. Al contrario, la quota in dollari è scesa dal 35% al 30%, segnalando un progressivo disimpegno delle imprese dalla valuta americana.
Finora la Bce ha dimostrato di saper gestire gli shock energetici e geopolitici degli ultimi anni mantenendo l’inflazione sotto controllo. Ma resta un interrogativo cruciale: a cosa serve una medicina che, nel tentativo di contenere l’inflazione, rischia di soffocare la crescita? Nel contesto europeo, l’Italia si trova in una posizione particolarmente delicata, sottolinea Michele Sansone, country manager di iBanFirst Italia: «l’inflazione è ormai in rallentamento, ma la crescita resta modesta e fortemente dipendente dai consumi interni e dal sostegno pubblico agli investimenti».
Non solo. In Italia il costo del credito, pur in lieve discesa, continua a frenare le piccole e medie imprese, il cuore del tessuto economico nazionale. Le aziende esportatrici, tuttavia, beneficiano di un euro più forte e di una graduale ripresa degli scambi intraeuropei. «È in questo spazio che l’Italia può giocare la sua partita: rafforzare l’internazionalizzazione e la competitività finanziaria delle imprese, puntando su strumenti digitali, coperture valutarie più sofisticate e partnership fintech in grado di rendere i flussi di pagamento più efficienti e strategici. In un’Europa sempre più attenta alla stabilità», conclude Sansone, «l’Italia può distinguersi proprio per la capacità di trasformare la prudenza in opportunità». (riproduzione riservata)