La tassazione nell'era del digitale. Cosa cambia con l'accordo in arrivo
La tassazione nell'era del digitale. Cosa cambia con l'accordo in arrivo
La notizia che anche l'Italia sta per varare una web tax sulla falsariga di quella francese non è passata inosservata sui media americani che hanno titolato: "L'Italia, dopo la Francia, pronta a dare uno schiaffo ai giganti del web"

di Roberta Castellarin 17/10/2019 11:55

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La notizia che anche l'Italia sta per varare una Web tax sulla falsariga di quella francese non è passata inosservata sui media americani che hanno titolato: "L'Italia, dopo la Francia, pronta a dare uno schiaffo ai giganti del web". Non è piaciuta all'amministrazione guidata da Donald Trump questa misura da cui il governo italiano prevede di raccogliere circa 600 milioni di euro l'anno. Il modello è semplice e consiste che già a partire dal 2020 sia in vigore un'aliquota del 3% sui ricavi di società di servizi digitali i cui introiti complessivi siano superiori ai 750 milioni di euro e i cui ricavi derivanti da prestazioni di servizi digitali non siano inferiori a 5,5 milioni di euro.

Si legge nel testo della manovra consegnato a Bruxelles: "Il triplice ambizioso obiettivo del Governo è innanzitutto il disinnesco delle clausole di salvaguardia previste a legislazione vigente in parallelo all'alleggerimento della pressione fiscale, che grava maggiormente sui redditi medio bassi, e alla riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Nell'ambito di un ampio processo di riforma dell'imposizione sugli utili d'impresa concordato a livello internazionale, si attuerà la web tax per le multinazionali del settore che spostano i profitti verso giurisdizioni più favorevoli. La revisione delle agevolazioni fiscali punterà a una razionalizzazione della miriade di agevolazioni attualmente esistenti rendendo il sistema più coerente con l'approccio d'insieme e sostenga il gettito fiscale".

Proprio il tema della tassazione dei giganti del Web è tra quelli più scottanti nei rapporti tra l'Europa e gli Stati Uniti nell'ambito delle discussioni sul commercio mondiale. E la notizia che gli Stati Uniti, la Francia e l'Ocse sarebbero quasi vicini ad un accordo sulla tassazione delle imprese tecnologiche è un segnale distensivo. Lo ha detto il segretario al tesoro americano, Steven Mnuchin, nel giorno in cui Donald Trump è tornato a tuonare contro i Paesi europei che intendono varare digital tax unilaterali nell'intento di danneggiare le imprese americane.

Il tema della cattiva abitudine di evitare le tasse spostando i profitti tra i Paesi non riguarda solo i grandi colossi del Web, del calibro di Apple, Facebook e Amazon, e l'obiettivo di modificare l'impianto della tassazione globale è volto a tenere conto del fatto che la rivoluzione digitale in corso avrà impatto su molti settori economici. Come rivela anche un corposo studio di Ubs intitolato: "Not just the tech giants: Digital business models in Oecd taxation sights" (Non solo i giganti della tecnologia: modelli fiscali dell'Ocse per i business digitali).

Infatti la proposta quadro, pubblicata mercoledì dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, consentirebbe ai Paesi di tassare le grandi multinazionali anche se non operano all'interno dei loro confini. Se i negoziatori internazionali arriveranno a un accordo questo porterà a nuove tasse non solo sulle società tecnologiche, ma anche sui produttori di automobili e su qualsiasi altra grande multinazionale che opera online.

D'altronde i leader politici e aziendali si sono scontrati negli ultimi anni su come e dove devono pagare le tasse le società che operano oltre i confini nazionali, in particolare quelle che vendono beni e servizi online. Finora le società hanno pagato le tasse nei Paesi in cui viene generata la loro attività economica, ma nell'economia digitale, le aziende possono spostare la fonte dei loro profitti, come brevetti e altre proprietà intellettuali, in Paesi in cui le aliquote fiscali sono estremamente basse. Ciò consente loro di pagare aliquote inferiori rispetto alle società che operano solo in un singolo Paese.

I primi a sollevare la questione sono stati soprattutto i Paesi europei che negli ultimi anni hanno dovuto fronteggiare le conseguenze della grande crisi finanziaria iniziata nel 2008 e si sono trovati con poche munizioni fiscali da sfoderare, tanto da dover fare grande affidamento sulle mosse della Banca Centrale. L'apripista è stata la Francia che  ha approvato una nuova tassa digitale quest'anno che colpirebbe grandi aziende tecnologiche americane come Google. L'amministrazione Trump ha risposto minacciando le tariffe sulle merci francesi importate, come il vino, prima che i Paesi decidessero di mettere in pausa i loro piani nella speranza di trovare un accordo multilaterale attraverso appunto l'Ocse.

La proposta emersa dai lavori Ocse  cambierebbe radicalmente il modo e il luogo in cui le società che operavano oltre i confini nazionali vengono tassate, anche se lascia i dettagli di tali aliquote ai futuri negoziatori. Suggerisce nuove regole su dove le società dovrebbero pagare le tasse ( in gran parte basate su dove avvengono le loro vendite)  e su quali profitti sono soggetti a tassazione.

"In un'era digitale, l'attribuzione dei diritti fiscali non può più essere circoscritta esclusivamente in riferimento alla presenza fisica", afferma il quadro. "Le attuali norme risalenti agli anni '20 non sono più sufficienti per garantire un'equa ripartizione dei diritti fiscali in un mondo sempre più globalizzato". Il piano si applicherebbe  solo alle multinazionali con un fatturato annuo di circa  825 milioni o superiore.

A una prima occhiata le indicazioni emerse sembrano essere una vittoria per i grandi Paesi a forte consumo come gli Stati Uniti, la Cina e gran parte dell'Europa occidentale e una perdita per i cosiddetti paradisi fiscali, come l'Irlanda. L'avanzamento del processo negoziale è una vittoria per le grandi multinazionali, anche se un accordo finale potrebbe metterle in condizioni di pagare più imposte, perché l'alternativa sembra essere una serie di imposte digitali Paese per Paese che potrebbero essere costose da rispettare. L'impatto che potrebbe esserci per società o azionisti in questa fase è ancora difficile da valutare, ma gli analisti di Ubs scrivono: "A parità di condizioni avere una maggior tassazione porta a minor generazione di cassa e a un abbassamento del valore della società". 

Tuttavia si tratta di un'evoluzione inevitabile. Come ricorda Matteo Ramenghi, chief investment officer di Ubs WM Italy in una nota intitolata "L'economia cambia più rapidamente delle statistiche". Ramenghi ricorda che "gli indicatori economici che utilizziamo più spesso sono stati concepiti dopo la seconda guerra mondiale, quando l'economia era fortemente sbilanciata nei confronti della produzione industriale. Abbiamo sotto gli occhi tanti esempi di prodotti industriali che si sono  dematerializzati o che si sono trasformati in servizi. L'industria della musica e cinematografica ha visto una drastica riduzione del proprio prodotto fisico a favore di file scaricati da Internet".

Ramenghi precisa: "Girando per le principali città europee non si può non notare come anche l'automobile spesso venga offerta come un servizio dai diversi operatori di car sharing. Le nuove generazioni sono meno legate al possesso fisico dei beni e vivremo un'accelerazione in questa direzione". A livello globale "probabilmente l'Europa è l'area economica più orientata all'industria, ma anche nel nostro caso i servizi rappresentano la quota maggiore dell'economia. In Germania la manifattura rappresenta solo un quinto dell'economia, in Italia un sesto, in Francia un decimo". Proprio per queste ragioni, Ramenghi ricorda che "una recente ricerca della nostra investment bank suggerisce che, nel caso di una contrazione significativa della manifattura, c’è solo il 30% di possibilità che l'intera economia entri in recessione. (riproduzione riservata)